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Questo articolo è stato pubblicato il 06 novembre 2011 alle ore 08:14.

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La mostra Homo sapiens. La grande storia della diversità umana a cura di Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani sarà inaugurata domani a Roma presso il Palazzo delle Esposizioni e si chiuderà il 12 febbraio del 2011. Per la prima volta vengono riunitii reperti provenienti da 56 musei e istituzioni di tutto il mondono per raccontare da dove veniamo e come siamo riusciti a popolare l'intero pianeta.


«Luce si farà sull'origine dell'uomo e la sua storia». Com'è noto, questa è la sola riga - verso la fine di un libro di quasi 500 pagine - che Charles Darwin dedicò alla nostra specie, homo sapiens, quasi fosse una delle possibili conclusioni di quello che doveva diventare il testo fondativo della moderna teoria dell'evoluzione biologica: l'Origine delle specie.
La frase, apparentemente incidentale, ha rappresentato e rappresenta tuttora la sfida intellettuale e la predizione scientifica che si è andata verificando, sostanziando e precisando in oltre centocinquant'anni di studi basati sul programma di ricerca impostato da Darwin e dai suoi contemporanei.

L'idea di fondo può sembrare banale. Se la selezione naturale – intendeva dire Darwin – è il nucleo esplicativo e il meccanismo di base dell'evoluzione di tutte le specie viventi, non c'è motivo di escludere la nostra da un'analoga storia e da uno stesso destino. Tutto qui. Eppure, dopo che le 1250 copie della prima tiratura dell'Origine delle specie vennero esaurite in un solo giorno, si avviò un intenso dibattito sulla neonata teoria dell'evoluzione che non riguardò l'evoluzione dei fringuelli o delle tartarughe, ma piuttosto si concentrò, con toni piuttosto accesi e incredibilmente mai sopiti, sul rapporto di parentela e di discendenza della nostra specie con le scimmie. In quegli stessi anni (1856), gli operai della cava che era attiva su uno dei versanti della valle detta di Neanderthal, dalle parti di Düsseldorf, certo non potevano immaginare che per ben oltre un secolo si sarebbe ancora discusso di quelle ossa, scomposte dai loro badili, raccolte sommariamente e consegnate al maestro di scuola Johann Karl Fuhlrott, appassionato naturalista della zona. Questi, a sua volta, affidò i reperti all'anatomista Hermann Schaaffhausen e poi qualcun altro (William King, nel 1864) diede loro un nome in latino: homo neanderthalensis. Così, passando di mano in mano, prese inizio la storia propriamente scientifica dello scheletro della valle di Neander. Con essa, iniziò anche una delle controversie più avvincenti della paleoantropologia come scienza: l'uomo di Neanderthal ne attraverserà tutta la storia, come una sorta di filo rosso, tenuto sempre teso da una polemica che alla fine riguarda il grado di "umanità" di questa specie umana estinta, in qualche misura specchio di noi stessi.

Umanità: questa è la parola. Siamo alla ricerca di un'interpretazione razionale del nostro stare al mondo e del nostro status di esseri viventi. La sfida è interessante, e da vari punti di vista, ma soprattutto è divenuta ormai di portata vitale. Dobbiamo rassegnarci all'idea, infatti, che una più profonda (e affidabile!) conoscenza di noi stessi è necessaria oggi per governare il ruolo decisivo che abbiamo nei confronti dell'intero pianeta e della nostra stessa esistenza. È una consapevolezza che si può raggiungere in molti modi, e alcuni ce li fornisce quella scienza poliedrica che chiamiamo antropologia. Nello specifico, la disciplina antropologica che si rivolge alla ricerca delle nostra natura profonda e delle nostre origini è la paleoantropologia: un po' paleontologia e un po' antropologia o, meglio, entrambe combinate insieme.
Darwin su questo non era ottimista. Ai suoi tempi, la documentazione fossile - e, dunque, la paleontologia in genere - non sembrava in grado di poter far luce sul processo dell'evoluzione e sulle nostre origini. Fortunatamente, almeno in questo Darwin si sbagliava. Le venti specie di nostri parenti e antenati estinti che conosciamo oggi stanno lì a dimostrare che quel giudizio negativo sulle potenzialità della ricerca paleontologica era prematuro e pessimistico. Al contrario, possiamo dire che è proprio la paleontologia a rappresentare la porta principale d'accesso al fenomeno del l'evoluzione, il canale più diretto che abbiamo per vederla svolgersi nella dimensione che le è propria: il tempo profondo. Non è probabilmente un caso se negli ultimi decenni significativi progressi teorici in campo evoluzionistico sono venuti proprio dalla paleontologia. Basti pensare alla teoria cosiddetta degli equilibri punteggiati, che dobbiamo a due paleontologi: Niles Eldredge e il compianto Stephen J. Gould (scomparso quasi esattamente dieci anni fa).
Più in particolare, la paleoantropologia - che riguarda il caso specifico della nostra storia naturale - sembra oggi in grado di far luce non solo nello specifico campo di studio, ma anche sui meccanismi e sulle modalità dell'evoluzione nel suo complesso. In altre parole proprio la natura e le origini della nostra specie sono un formidabile esempio, un test-case particolarmente informativo di evoluzione biologica. Va anche detto che la paleoantropologia, come tutta la biologia, è una scienza storica che procede sulla base di indizi e di modelli: gli indizi - segnali paleontologici che provengono dal tempo profondo sotto forma di resti fossili, di manufatti preistorici e di dati paleoambientali - vengono presi in esame, attraverso un approccio tipicamente interdisciplinare, allo scopo di arrivare a formulare una "narrazione" sempre più affidabile della storia naturale dell'uomo e dei nostri parenti e antenati più prossimi.

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