Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2011 alle ore 19:58.

My24

Il teatro come luogo dell'esperienza. Un confronto immediato, diretto, fisico con le proprie sensazioni ed emozioni. È un teatro fatto di luci, ombre, pieni, vuoti. Come nella scultura di Anish Kapoor, quando si entra nel teatro di Romeo Castellucci non vedi nulla. Anche perché il passaggio dalla luce al buio rende l'oscurità ancora più intensa.

Non conosci il percorso. Devi fidarti, ed entrare. Solo un breve attraversamento. Che suscita reazioni diverse in ciascuno. E introduce nella sfera dell'emotività e della memoria. Con «Il velo nero del pastore», tratto dall'omonimo racconto di Nathaniel Hawthorne, del 1836, si entra in uno spazio mentale. Castellucci mette in scena l'indicibilità, l'irrapresentabilità di un gesto estremo: quello di un pastore protestante che si distacca dal mondo e dalla sua comunità coprendosi il volto fino al termine della sua vita, al suo divenire polvere. Senza dare nessuna spiegazione.

Questo mistero è esplorato dal regista ponendo il dramma dal punto di vista dello sguardo della comunità attonita, che non capisce e si interroga. Quindi dello spettatore. Attraverso una raffinata drammaturgia di immagini, sostenuta dal suggestivo tappeto sonoro creato da Scott Gibbons, Castellucci lo spiazza. Lo sollecita. Lo investe della responsabilità di reagente primario. Molecola attiva di un atto creativo. Ed è con una visione di particelle che si apre la scena: un vortice ventoso di materia indefinibile - forse piume - dentro una teca che riempie il boccascena.

In alto una cornice marmorea cimiteriale con la scritta in latino "L'appartenenza biologica del genere umano". Ai lati due grandi abatjour. Un sipario avanza e indietreggia depositando ogni volta frammenti scomposti del corpo di Silvia Costa a terra che, rannicchiata, partorirà una sfera nera. Fin quando si mostrerà frontalmente ingaggiando un duello con la violenza della luce di due fari che la colpiscono a intermittenza accompagnata dal suono secco di spari. E ad ogni colpo, come insanguinata, s'imbratterà di rosso il viso.

Nel buio totale si udrà una risata. Poi una scritta di fumo con le parole "Love songs" che si dissolvono. Alzata da terra e pulita, la donna sarà condotta da due uomini davanti ad una teca con dentro dei topi da laboratorio; le porgeranno uno specchio per dipingersi le labbra e la saluteranno con un abbraccio d'addio. Ancora buio e la vedremo, minuscola creatura, fronteggiare l'avanzare di un'enorme locomotiva. Il muso di questa si spingerà a rompere la quarta parete, minaccioso fin quasi sugli spettatori, per poi indietreggiare e scomparire. E risucchiarci in un buco nero dove, la ricerca di senso è da esplorare dentro noi stessi.

Una fila di lampadine scenderà davanti al sipario chiuso compiendo un ultimo rituale: si romperanno una dopo l'altra attraverso un meccanismo a ventola che avvitandosi le schiaccerà. Cosa succede dietro quel sipario? Quale altrove nasconde? A quale altro luogo rimanda? Sono le domande che tengono vivo lo sguardo di noi spettatori. L'affascinante enigma, viaggio onirico e simbolico, tale deve rimanere. Per ciascuno. Perché quanto accade in quella scatola magica, in quella sottrazione del testo che opera Castellucci a favore di un universo reale ma indefinito, disturbante e trasfigurato, c'è forse un'altra visione della vita. E dell'arte.


"Il velo nero del pastore", liberamente ispirato alla novella di Nathaniel Hawthorne, di Romeo Castellucci, produzione Socìetas Raffaello Sanzio, musica di Scott Gibbons, con Silvia Costa e Diego Donna. Al teatro Il Vascello di Roma per Romaeuropa Festival. Il 16 e 17 al Teatro Ariosto di Reggio Emilia per il Festival Aperto.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi