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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2011 alle ore 16:41.

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Illustrazione di Giordano PoloniIllustrazione di Giordano Poloni

Una novella è un racconto. Una cronaca è un racconto. Una parabola è un racconto. Un apologo è un racconto. Una storia zen è un racconto. Un haiku è un racconto. Un verbale è un racconto. Una testimonianza è un racconto. Una barzelletta è un racconto. Un referto medico è un racconto. Un caso clinico è un racconto. Un'anamnesi è un racconto. Perfino certi necrologi, più che altro americani, di quelli che compaiono nelle pagine intitolate «Obituaries», perfino alcuni di quelli sono racconti. È molto difficile scrivere qualcosa, e anche soltanto dire qualcosa, senza raccontare.

Il racconto è struttura di per sé, perché è ancora in rapporto con la scala nella quale il linguaggio è stato inventato: la scala della frase, quel nucleo indistruttibile composto da soggetto e predicato che dà ordine al mondo; un ordine che il mondo non ha. E c'è una sola regola che vale per tutti, quando si parla di racconto: dev'essere breve. Poi naturalmente interviene la discrezionalità, a stabilire e modificare di volta in volta il significato di 'breve': Cechov ha scritto molti racconti, ma se li pubblicasse oggi verrebbero chiamati romanzi. Resta il fatto che al racconto è richiesta una relativa brevità - non può durare, ad esempio, quattrocento pagine -, e non si tratta di un capriccio: ciò che la impone al racconto è la stessa esigenza che la impone alla singola frase: il controllo. Non si può perdere il controllo di un racconto così come non si può perderlo delle singole frasi che lo compongono.

Il controllo: questo mito dell'arte classica, morto quasi dappertutto, ormai, con l'avvento della modernità, sopravvive ancora nell'arte del racconto. Diversamente da un romanzo, un racconto può essere pienamente controllato dal suo autore; e dunque ‐ attenzione ‐ può essere perfetto. E quanti ce ne sono, di racconti perfetti. Un racconto perfetto, che sia breve come Il gorgo di Beppe Fenoglio o che sia lungo come La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth, risulta immune al disordine che circonda la vita di scrittore e lettore; è una bolla lucente che rischiara quel buio che non viene penetrato nemmeno dall'esile lumino della ragione.

Il romanzo no, il romanzo è un universo intero, accompagnato dalla sua inevitabile, disperata confusione di ombre e di luci; il romanzo è imperfetto per forza di cose, il romanzo è sostanzialmente buio, e per quanto sforzo possa fare l'autore di controllarlo, si scrive da sé. Questa apparente debolezza a volte diventa forza trascendente; perché il romanzo può trascendere, può farsi gesto sovrumano. Il racconto no, il racconto rimane tutto intero nelle mani del suo autore, come un pugno di riso. Mettiamola così: il romanzo è il mondo. I racconti abitano il mondo, e lo tengono in ordine. Un romanzo è fatto di racconti, una raccolta di racconti è fatta di racconti; l'uno è molto più grande della somma dei racconti che lo compongono, l'altra con quella somma coincide perfettamente. In entrambi i casi si tratta di un prodigio.

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