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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2011 alle ore 13:52.

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La mascella serrata, il labbro sporgente, le mani appoggiate sui fianchi del corpo arcuato. Così ci viene tramandata la figura del duce e così ce lo restituisce, strappato dalla polvere degli archivi dell''Istituto Luce' a Cinecittà e dell''Archivio Centrale dello Stato' dell'Eur, Il corpo del duce. Il documentario di Fabrizio Laurenti - il cui precedente lavoro, Il segreto di Mussolini, aveva ispirato Vincere di Bellocchio - liberamente tratto dall'omonimo saggio (Einaudi, 2011) di Sergio Luzzatto, sarà proiettato il 30 novembre al 'Torino Film Festival' (fino al 3 dicembre nel capoluogo piemontese).

Torino ha sempre avuto fiuto e attenzione particolare per i documentari, a volte più avvincenti dei film di finzione, come il bellissimo La bocca del lupo di Pietro Marcello, vincitore della rassegna nel 2009.
La relazione tra la corporeità di Mussolini e la folla soggiogata dal Fascismo durante il ventennio prima, e quella sparuta, ma sentimentale e devotissima che fa visita alla tomba del dittatore a Predappio oggi, ha radici nella profonda religiosità e nella venerazione quasi pagana e carnale, che il popolo italiano ha verso i suoi santi. È Luzzatto stesso a spiegarlo con uno scioglilingua: «Carisma, crisma, Cristo, l'Unto», concatenazione logica grazie a cui l'idolo diventa dio, anche in virtù del fatto che, come spiega il regista sceneggiatore Pietro Vivarelli, «Gli italiani sono un popolo politicamente omosessuale».

In Il corpo del duce Benito Mussolini si denuda il torso e inaugura la stagione della trebbiatura. Corpulento, ma agile e sodo, il cranio glabro e lucente di sole, il dux trasmette nel suo insieme vigore e sensualità che nei contadini si traduce in adorazione. Accanto a Vittorio Emanuele, piccolo di statura, dallo sguardo e la postura sciapa, il duce vince e schiaccia con altrettanta facilità una classe politica cresciuta con marsina e cilindro.

Mussolini, secondo una precisa strategia di comunicazione, alimenta la fama di sciupafemmine, guida la motocicletta, l'aeroplano, arringa la folla con voce stentorea. Ma è una recita, come si evince dalle immagini di un altro documentario (oggi al festival), Il sorriso del capo, di Marco Bechis. Il regista cileno - che raccontò, trasposta, la sua personale esperienza con la dittatura di Pinochet in Garage Olimpo (1999) - pesca nell'immenso archivio dell''Istituto Luce' un discorso torinese del 1932, in cui Mussolini depone la maschera.

È in maniche di camicia, mentre i gerarchi accanto a lui zittiscono bonariamente la folla, come fossero scolari indisciplinati. Mussolini scatta in fulminei saluti romani, ma poi si rilassa, perde la piega sporgente del labbro insieme alla posa mascolina a gambe allargate, non trattiene il sorriso e lascia correre la grassa 'esse' emiliana, che occulta durante i comizi ufficiali.

Il popolo italiano è un bambino da educare nel mito della compattezza e invincibilità nazionale, in cui tutto si fa in casa, seguendo il sicuro solco tracciato da una nazione di poeti e inventori. Paternale e benevolo, Mussolini si presenta agli operai della Fiat, popolo oceanico e demiurgo del progresso e del futuro colonialista negli stabilimenti nuovi di zecca.

Chi crederebbe che quella folla festante è la progenitrice degli avviliti dipendenti di Sic Fiat, altro documentario che viene proiettato il 1 dicembre al Torino film festival? Il regista Daniele Segre punta la sua macchina da presa davanti ai cancelli dello stabilimento di Mirafiori tra gli operai divisi, alla vigilia del referendum che modificherà il loro contratto di lavoro. È un film indubbiamente ideologico, con una tesi precisa, e però attualissimo oggi dopo l'annuncio dell'amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, di estendere gli accordi di Pomigliano alle altre sedi. Sic Fiat continua la tradizione della rassegna guidata da Gianni Amelio di criticare liberamente l'industria automobilistica, per nulla intimidita dalla presenza ubiqua in città degli Agnelli. Già l'anno scorso il festival aveva presentato Il pezzo mancante di Giovanni Piperno, su Giorgio ed Edoardo, rispettivamente fratello e figlio dell'Avvocato, di cui poco si parla e si sa.

È più che altro un'opera emotiva Sic Fiat, d'altronde anche la storia, come ci insegna Il corpo del capo, spesso lo è: è amore quello che spinge alcuni esponenti del movimento neofascista a trafugare le spoglie del duce. O come racconta la voce narrante del film di Bechis secondo cui l'ascesa di Mussolini è stata spesso frutto di un susseguirsi casuale e indebito di delusioni, esclusioni, passioni. Solo la fine svela a chi appartiene questa dignitosa, sincera e umanissima voce.

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