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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2011 alle ore 08:16.

Dare una definizione filosofica del l'immagine, nell'era della realtà virtuale e della trasmissione in tempo reale di video e foto, potrebbe essere il passo fondamentale verso l'acquisizione di una maggiore responsabilità anche "politica" nell'uso delle immagini. Mauro Carbone, nel suo brillante saggio La chair des images (Vrin), mostra come già a metà del Secolo scorso, ben prima della svolta iconica (iconic turn) avvenuta negli anni Ottanta, Maurice Merleau-Ponty riflettesse in modo critico sulle immagini e parlasse della necessità di una «nuova ontologia», capace di aggirare la persistenza del pregiudizio platoneggiante che l'immagine sia semplicemente la copia di un modello. Le immagini non si limitano a rendere presente un originale assente, ma lo ricreano conferendogli una nuova originalità. L'immagine, artistica e non, sancisce la nascita di un oggetto completamente nuovo; essa non è dunque una replica, ma l'occasione di "vedere di più" o, come direbbe Paul Klee, di «rendere visibile» la realtà che abbiamo sotto gli occhi.
Merleau-Ponty invoca un'inversione di rotta del pensiero occidentale, che ancora oggi si basa sulla dicotomia netta tra sensibilità e pensiero e che considera il guardare il mondo un'operazione scontata. Le immagini, invece, e quelle artistiche in particolare, aprono a esperienze mai prevedibili; in esse ciò che era fino a poco prima invisibile si rivela inaspettatamente allo sguardo, sicché visibile e invisibile divengono le due facce reversibili della medesima visione. Un unico orizzonte ontologico accomuna il vedente e il visibile (vedo ma sono anche visto), il senziente e il sensibile (la mia mano tocca ed è toccata): Merleau-Ponty definisce «carne» (chair) quest'orizzonte di appartenenza di tutti gli enti. Le immagini dipinte da Paul Cézanne appartengono allo stesso campo d'azione – la "carne" – di chi le guarda: esse si fanno guardare e contemporaneamente guardano, sono loro a dettare le norme stesse della visione.
È soprattutto nel cinema – osserva Carbone – che il filosofo francese trova conferma alle sue intuizioni fenomenologiche. Egli considera l'esperienza cinematografica paragonabile a quella della vita vissuta e gli appare chiaro come, nel cinema come nella vita, la percezione e il pensiero non siano affatto attività disgiunte. In sintonia con la psicologia della Gestalt, e anticipando certe odierne teorie neuroestetiche, Merleau-Ponty considera il film una «forma temporale» in cui percezione e cognizione agiscono unitamente per configurare unità spazio-temporali dotate di senso.
A Henri Bergson, che stimava il cinema una vana illusione (il movimento stroboscopio per lui era solo falso movimento) priva di valore cognitivo, Merleau-Ponty risponde criticamente con un'ambiziosa provocazione filosofica di natura più ampia. Non solo il cinema è un'esperienza vera, ma è nel movimento che ha da cercarsi la radice stessa del pensiero. Come ha sottolineato più tardi anche Gilles Deleuze, è proprio nell'esperienza dello schermo, oggi dello schermo digitale, che la filosofia contemporanea dovrà rispecchiarsi per trovare risposta a molte delle sue domande.
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Mauro Carbone, La chair des images. Merleau-Ponty entre peinture et cinéma, Vrin, Parigi, pagg. 128, € 16,00

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