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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2011 alle ore 08:17.

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Rari ma ci sono ancora, i grandi innovatori del jazz, quelli che non lasciano le cose così come le hanno trovate. Tale è stato fino all'ultimo il batterista Paul Motian, ottant'anni ma attivo in pubblico ancora due mesi prima che il suo male (un'affezione del midollo spinale) lo finisse martedì in una clinica di Manhattan. Un uomo speciale, un'esistenza costellata di personaggi tra i maggiori e, soprattutto, di episodi non comuni: li raccontava con arguzia ma quell'autobiografia che aveva promesso non ce l'ha lasciata. Era nato nel 1931 a Filadelfia, in una famiglia di armeni. Non era arrivato presto alla professione musicale, avendo servito fino ai ventitré anni in marina militare; né aveva fatto studi specifici, se a carriera inoltrata, avendo capito di poter essere anche un valido compositore, aveva dovuto acquistare il pianoforte che non aveva mai avuto e capire come usarlo. Era saggio e cocciuto: nel 2004 decise d'essere stanco di viaggiare e da allora non lo si sentì più fuori da New York.
Il primo a rendersi conto di quale batterista fosse fu Thelonious Monk, ma a Motian la notorietà arrivò al fianco di un altro sommo pianista, Bill Evans, in quel magnifico trio completato da un altro genio senza paragoni: il contrabbassista Scott LaFaro. Questi e Motian innovavano concetti e tecnica sul rispettivo strumento, con loro non più subordinato a quelli "melodici", e tutto il trio era unito come da autentica telepatia. Quel paradiso durò poco: dal 1959 al '61, crudelmente cancellato dall'incidente d'auto in cui a venticinque anni perì LaFaro. E sarebbero state poche anche le incisioni lasciate se la Riverside non avesse avuto l'idea di registrare per intero tre lunghe giornate del trio al Village Vanguard, monumentale e ancora vivo oggetto di studio. In particolare l'apporto di Motian era e sarebbe sempre stato, nei successivi cinquant'anni di carriera, una ricerca di musicalità tutt'altro che comune sui tamburi e sui piatti d'una batteria. L'immaginifico artista la estraeva agendo, più spesso che con le bacchette, con le spazzole, divini arnesi in mano sua. Così, sussurrando più che tuonando, sapeva dividere il tempo, assecondare i partner, spingere il gruppo. E il medesimo impegno di finezza e, diresti, di discorsività sonora era nelle composizioni, e ovviamente nei gruppi che riuniva, scegliendo a volte organici e timbri insoliti. Per fortuna i grandi talenti non ci lasciano del tutto, purché ci sia un retaggio di registrazioni. Innumerevoli davvero quelle di Paul Motian, idolatrato dai maggiori colleghi e presente in gruppi arcifamosi. Oltre al Bill Evans Trio, possiamo ricordare il quintetto di Keith Jarrett (quello con Dewey Redman al sax), le orchestre di Carla Bley e Charlie Haden, e tra le sue leadership i lavori con Lovano e Frisell, o con Chris Potter, o l' Electric Bebop Band: i cataloghi Ecm e Winter & Winter offrono a iosa le ultime. E non dimenticheremo le gemme con italiani del valore di Rava (con Bollani) e del più "evansiano" dei pianisti, Enrico Pieranunzi.
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