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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2011 alle ore 08:14.

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Poeta, partigiano, romanziere, sodale di Pasolini e Leonetti nel fondare Officina, direttore di Lotta Continua, libraio militante per sessant'anni, paroliere per Lucio Dalla e gli Stadio: quattordici lettere. Se non vi sovviene immediatamente il nome di uno dei più importanti intellettuali italiani viventi, è perché Roberto Roversi negli anni Sessanta ha fatto una scelta controcorrente che oggi ne fa anche un pioniere e un modello per chi ragiona di nuove politiche editoriali: ha deciso di non pubblicare più per grandi gruppi editoriali, di autoprodursi e autodistribuirsi.
Ma adesso che Pendragon ha deciso di ristampare il suo Caccia all'uomo, pubblicato da Palmaverde nel '52, esaltato da Sciascia, e riedito nella Medusa da Mondadori nel '59; chi ignora tutto quello che abbiamo scritto qui sopra, può forse confrontarsi con questo romanzo non come con un recupero, ma come con un esordio, sfidante e irriducibile.
Caccia all'uomo sembra infatti un romanzo scritto da un autore piretico in schietta guerra contro l'enfasi patriottica dei superomaggiati "150 anni dell'Unità d'Italia": un romanzo storico dove la Storia perde la sua funzione di dare forma agli eventi, e diventa l'esibizione di una idealità perduta. (Forse non è proprio un caso che per fare un'operazione simile rispetto alla retorica resistenziale, Fenoglio sceglierà un Paradiso Perduto come palinsesto da cui partire).
Roversi ritorna invece al 1810. Se ci pensiamo, solo pochi anni prima Hegel aveva scritto di aver visto proprio lo spirito della Storia entrare a Jena a cavallo, e quell'esercito francese comandato da Napoleone aveva portato in Italia quelle idee dell'Illuminismo che avrebbero dato idealmente vita al percorso risorgimentale. Ma qui di tutto ciò non c'è traccia. Tra i monti della Calabria, quello stesso esercito si sta adoprando per reprimere in modo barbarico il brigantaggio borbonico. Gli eventi brutali che vedono schierati da una parte i sanguinari briganti al soldo di Boccone accecati dalla sete di denaro, e dall'altro i soldati di Gioacchino Murat, si trasfigurano in un'idea ancestrale di conflitto, che diventa pura immanenza, senza la possibilità di una risoluzione, in cui passato e futuro vengono ridotti a dimensioni non più esperibili.
Non c'è la consapevolezza di una rivoluzione alle spalle. Il 1789, il 1945? («Era strano che non ricordassi alcuno episodio del mio passato, delle battaglie, delle marce per le pianure d'Europa, tutto era scomparso, anche il vigore», dice un soldato che vorrebbe ritornare in Francia). E non c'è un'Italia futura. C'è solo un adesso, di pura guerra, che dà accesso alla speranza giusto per negarla. E allora persino la lingua, iperbolica, barocca, puntigliosa, crea un effetto straniante, come se l'ipermaterialità delle descrizione rendesse immateriali gli oggetti. L'avidità smodata, delirante, «l'ebbrezza insensata» dei briganti, la loro sete di oro e ricchezza è talmente eccessiva che non può essere placata dalla restituzione materiale di un tesoro concreta. Così anche nel momento in cui «appare il tesoro» nella sua corporeità («sono monete piccole come occhi di capre, oppure sassi rotondi e duri, gioielli, perle, bracciali, pugnali…») accade qualcosa che inibisce la possibilità di una vera soddisfazione: «Entra nel sangue, con la stanchezza, la paura che il tesoro fugga». L'ansia di possesso non è mai solo possesso, ma «una sorta di angosciata avidità». Briganti, soldati, non si capisce per cosa o contro cosa combattano. E con l'annullamento della speranza, qualunque oggetto del desiderio si svuota di senso, che sia l'oro o una donna da tenere tra le braccia: quando il Boccone entra in paese, massacra gli uomini della guardia civica e prende Maddalena, si spera che questa smania si riveli quella di una passione erotica – almeno una questione come dire privatissima. Ma non è così. Lei in poco si trasforma da «gran bellezza» in «una larva, lontana dal mondo, volante intorno a una lampada».
Che guerra ci sta raccontando Roversi, qual è stata la sua esperienza della Resistenza? Se tutto ciò che reclama una sua esistenza fuori dal conflitto è un sentimento di attesa o di nostalgia, senza rapporto alcuno col tempo reale? Rimangono stati dell'animo sospesi intorno alla violenza del momento presente. Eppure si succedono le stagioni, cade la neve o torna la primavera, come se questa fissa ciclicità potesse condurre a una pace. «Ma dov'è mai la pace? Nera è la notte, i vestiti delle donne sono neri, e così gli occhi degli uomini». L'unica pace possibile è allora la morte, l'uscire di scena in un dramma senza uscita.
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Roberto Roversi, Caccia all'uomo, Pendragon, Bologna, pagg. 194, € 15,00

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