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Questo articolo è stato pubblicato il 29 novembre 2011 alle ore 12:32.

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Vittorio De SetaVittorio De Seta

È morto nel cuore del suo Sud, che tanto aveva amato e di cui però non si era tirato indietro a mostrare ferite e vergogne, Vittorio De Seta, regista e sceneggiatore palermitano. Padre della documentarista italiana, De Seta era nato a Palermo nel 1923 e si è spento ieri sera nel piccolo comune calabrese di Sellia Marina, nella tenuta materna in provincia di Catanzaro, in cui si era ritirato dagli anni Ottanta.

La sua Palermo l'aveva vista con gli occhi dell'agiatezza, visto che era nato da una famiglia aristocratica, ma questo non gli aveva impedito di calarsi nelle periferie e nelle campagne meridionali poverissime, comprendendole e facendole capire.

Diciannovenne di iscrisse a Roma ad architettura, ma ben presto intraprese quella che fu poi la sua vera strada: il cinema. Iniziò lavorando come secondo aiuto regista di Mario Chiari per un episodio del film Amori di mezzo secolo e nel 1954 diventò aiuto regista di Jean-Paul Le Chanois in Vacanze d'amore. Ma fu il documentario la sua vera dimensione. Subito dopo la guerra vagò con la macchina da presa tra Sicilia e Sardegna per registrare in cortometraggi feste liturgiche e riti religiosi, al limite del paganesimo agreste, e le durissime condizioni di vita dei solfatari nisseni e dei pastori della barbagia. Una di queste opere, "Isola di fuoco", ambientato alle Eolie, vinse il premio come migliore documentario al festival di Cannes del 1955. Era il tempo in cui i registi potevano riallargare al massimo il proprio orizzonte conoscitivo e riaprire i conti in sospeso con la realtà, allontanata dal cinema dei Telefoni Bianchi.

Con "Banditi a Orgosolo" del 1961, sceneggiato con la moglie Vera Gherarducci, De Seta fece il salto nel lungometraggio. Grazie alla lezione del Neorealismo, raccontò un mondo criminale in maniera misurata ma allo stesso tempo epica, meritandosi l'Opera prima al Festival di Venezia e il Nastro d'Argento alla migliore fotografia. La macchina da presa nel film segue i due protagonisti in fuga, due banditi per l'appunto, come se fosse un terzo uomo. Corre e si ferma con loro, non ne edulcora i comportamenti primitivi, ma rende comunque la bellezza della libertà. Come scrive Gian Piero Brunetta in "Cent'anni di cinema italiano" : "I nuovi autori – da Ferreri ai fratelli Taviani, da Olmi a Pasolini, da Petri a De Seta – intendono servirsi del cinema come mezzo di affermazione e riconoscimento della propria identità e di conoscenza storica, ideologica, sociologica, intellettuale ed artistica".

Il distacco dalla documentaristica avvenne con "Un uomo a metà" del 1966, in cui De Seta si calò nel terreno infido malattia mentale, facendo emergere il trauma alla base del disagio del protagonista. Ma come molti degli artisti che si misurarono su questo tema De Seta cadde e il film ebbe critiche pessime. Così accadde anche per "L'invitata", girato tra il 1969 e il 1970 in Francia, su un'intricata storia di tradimenti e una riflessione sulla coppia borghese: dimostrarono di apprezzarlo solo Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Nel 1972 De Seta ritornò alle tematiche degli esordi, documentando una difficile esperienza didattica condotta in una borgata romana con una miniserie televisiva prodotta dalla RAI, Diario di un maestro. Il film ebbe un buon successo di pubblico tanto che avviò dagli anni Ottanta una lunga collaborazione con la Rai, che ha la sua espressione più matura in In Calabria, del 1993, dove racconta la terra materna. Nel 2000 realizzò con il fotografo Angelo Franco Aschei, il corto Mano. L'ultima sua fatica è il lungometraggio Lettere dal Sahara, che segue la vita di un migrante africano in Italia.

Se oggi i giornali tornano a parlare di documentari, come tema su cui discutere e riflettere, e non solo da ripresentare a una platea annoiata di scolaretti, lo dobbiamo anche a lui. E a lui devono molto i registi che in questi giorni, con le opere quali "Il corpo del Duce" e "Il sorriso del capo", hanno fatto discutere pubblico e critica.

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