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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2011 alle ore 14:05.

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"Barbara Frittoli, Giuseppe Filianoti, Anna Netrebko". Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala"Barbara Frittoli, Giuseppe Filianoti, Anna Netrebko". Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

In una delle sue tante incarnazioni novecentesche Don Giovanni si ritrova in Sicilia, luogo che gli era già stato assegnato da Molière, in una Catania per certi aspetti non troppo dissimile dalla Siviglia in cui l'aveva invece collocato Tirso de Molina. Ora non è più Don Juan: non è che un semplice dongiovanni, uno fra i tanti; anzi, uno dei peggio riusciti. Ma il tragitto che unisce il nome proprio al nome comune è stato lungo, vario e accidentato.

Il Burlador spagnolo del Seicento barocco è passato di mano in mano, di storia in storia e anche di genere letterario in genere letterario - benché davvero, come voleva Kierkegaard, è stata la musica il suo autentico e glorioso destino - seducendo non solo fanciulle ma scrittori e critici molto diversi tra loro e che molto diversamente lo hanno inteso. L'italiano Brancati, tra i tanti che ne hanno ripreso la figura nel secolo passato da Max Frisch a Montherlant, nel suo Don Giovanni in Sicilia è stato uno dei meno benevoli, trasformando il trasgressivo gentiluomo secentesco in un maschio immaginario audace nel fantasticare e timoroso nell'azione, vittima più che artefice del familismo italiano in questo caso più regressivo e pantofolesco che amorale.

Se Don Giovanni, come sostenne in un famoso saggio in piena epoca strutturalista il francese Jean Rousset (Il mito di Don Giovanni), analizzandone varianti e invarianti, è un eroe mobile, altrettanto mobili sono le pedine che si muovono attorno a lui sulla scacchiera narrativa. Don Giovanni per esistere ha bisogno del suo pubblico, non solo quello dei teatri e dei libri, ma dei suoi compagni di avventura e sventura. Lui vuol restare se stesso, ma loro cambiano e in qualche misura lo cambiano. Il servo, le donne, il Commendatore ucciso sono soggetti a slittamenti di posizione che alterano la fisionomia dell'insieme. Per esempio Donn'Anna: nel dramma di Tirso, rappresentato intorno al 1630, non è che una voce, la voce dell'abuso e dell'oltraggio, e si sdoppia in Isabella, violata a sua volta e unita a Don Giovanni da un odio inestinguibile; anzi, Isabella e un'altra sedotta, la pescatrice Tisbea, sembrano quasi, nell'opera spagnola, una minuscola entità protofemminista dell'indignazione e della rivolta contro la prepotenza del maschio.

La tenace e sofferente Elvira entrerà in successive elaborazioni della storia: non molti anni dopo, quando Molière scrive il suo Don Giovanni e il festino di pietra rapresentato per la prima volta nel febbraio del 1665, se Anna non è nominata e il Commendatore è stato ucciso prima dell'azione teatrale, Elvira ha acquistato una notevole importanza. Fanciulla strappata al convento non è una vendicatrice, è una vera innamorata che, per quanto dolente e umiliata per l'abuso subito, continua a essere tale, al punto che il seduttore mai pentito confessa al servo di aver provato di fronte alle parole della bella sofferente un resto «dell'antico fuoco estinto». Soprattutto, grazie alla sua eloquenza di perfetta salonnière, l'Elvira francese riesce a sottrarsi all'obbrobrio della celebre lista delle conquiste: dove ciò che più affligge la parte lesa femminile non è l'orrore del tradimento ma il terrore dell'anonimato.

Forse Molière si è occupato di Don Giovanni soprattutto dietro insistenza dei suoi attori, ammirati e invidiosi del successo della compagnia degli Italiani che ne avevano portato una versione sulle scene. Ormai Don Giovanni non è più una creazione letteraria ma un mito dell'epoca moderna - del resto anche il testo di Tirso aveva alle spalle vecchie leggende di cene col morto, una multiforme preistoria accuratamente ricostruita da Giovanni Macchia nel suo Vita avventure e morte di Don Giovanni. Molière, che vuole salvare la stagione teatrale compromessa dalle critiche e censure al Tartufo, col vecchio Burlador sa di andare sul sicuro, tanto più se accoglie dagli italiani un suggerimento prezioso: potenziare la parte del servo.

Sganarello, a differenza del Catalinon di Tirso, è un personaggio potente, non più solo una spalla del padrone. E se l'eroe spagnolo è "L'Ettore di Siviglia", bello sconsiderato e vitale, il cinico protagonista francese ha le idee chiare sul gioco di società che la virtù e il vizio sono costretti a giocare. Lucido e persino didattico quando, trapassando con un effetto di verità la costruzione barocca originaria, spiega a Sganarello perché non si vergogna a fare il benpensante: «Non è più cosa di cui ci si debba vergognare: l'ipocrisia è un vizio alla moda, e tutti i vizi alla moda sono considerati virtù».

La ronde dei personaggi attorno al gran seduttore continua di opera in opera e mentre il padre del reprobo, presente anche in Molière - e del resto chi meglio di Don Giovanni incarna il puer aeternus? - esce di scena, Donn'Anna vi rientra con molta energia: anche in Goldoni, che presenta un suo Don Giovanni Tenorio nel 1736 (e si stupisce lui stesso del successo che ha lo spettacolo), questa figura femminile acquista nuova importanza e una forte carica sentimentale. Ma all'inizio dell'Ottocento, dopo l'assunzione nel cielo musicale mozartiano, è lo stesso Don Giovanni a cambiare aspetto, prima ancora di diventare l'eroe estetico per eccellenza di Kierkegaard.

Nel 1813 E.T. Hoffman gli dedica un racconto fantastico (nelle Fantasie alla maniera di Callot) dopo il quale sarà assunto a pieno titolo nell'Olimpo del Romanticismo, creatura dannata per troppa elezione o disperato revolté. Preparato dunque ai complicati travestimenti del secolo Ventesimo sotto il segno dell'ideologia o della psicologia (Anhouil lo fa morire d'infarto), e pronto a rinascere nella scena mozartiana diverso ad ogni allestimento grazie ai volti mutevoli che i secoli gli hanno disegnato.

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