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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2011 alle ore 08:17.

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«La verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso del l'avvenire». Quanto è antica, e quanto è moderna questa sentenza? La questione del Moderno è un'opportunità per considerare la problematicità della scrittura della storia. Un primo aspetto di questa complessità appare quando si concepisce la narrazione della storia come atto inquisitorio il cui risultato è la costituzione di fatti che funzionerebbero talvolta come indizi, talvolta come prove o simboli, e dai quali stillare una lezione o un programma per il presente.
Secondo questa differenziazione, per fondare il Moderno della nostra società moderna, portati per mano dalla storia, madre e maestra, dovremmo rivolgere il nostro sguardo verso il passato per trovare in esso gli exempla da seguire per essere moderni oggi.
La celebre frase di Johan Joachim Winckelmann: «La sola via per diventare grandi, o se possibile anche inimitabili, è imitare i Greci» (1755) è eloquente di questo movimento fondatore a ritroso. La funzione epidittica della storia, consolidata nel XVI secolo, è messa in discussione quando si comincia a descrivere la storia in modo eteroreferenziale, introducendo un concetto di verità che vuol sostituirsi a quello di verità morale: «L'histoire qui sert, c'est une histoire serve» scriveva Lucien Febvre ai suoi colleghi dell'università di Strasburgo (1919). La critica agli aspetti utilitaristici della storia sarà appunto alla base delle nuove differenziazioni stabilite dall'historiographical turn degli anni 70.
Il secondo aspetto di cui la storiografia deve tener conto, affrontando la questione del Moderno così come qualsiasi altro oggetto di studio, riguarda i corollari della "svolta storiografica". Già Charles Peguy anticipava alcuni di questi corollari quando si lamentava dell'impossibilità di fare la storia degli storici che, rifiutando di stare nei ranghi della storia, sono come i medici che non vogliono essere malati né morire.
Lo storico non è più soltanto un osservatore ma diventa a sua volta osservabile. Questa concezione dello storico potrebbe essere equivalente a quella tratteggiata da Michael Baxandall (Patterns of Intentions) per gli storici dell'arte: «Non si danno spiegazioni dei quadri: si spiegano le osservazioni fatte su di essi. O meglio, spieghiamo i quadri nella misura in cui li abbiamo fatti oggetto di una descrizione o determinazione verbale». La scrittura della storia ha spostato il suo focus dalla «cosa di cui si parla» all'osservazione di «chi parla» e al luogo di produzione dell'enunciato.
Questa cornice teorica potrebbe aiutarci a stabilire la distanza tra l'uomo dell'Età Moderna e noi, anche se questo si discosterebbe dai compiti normalmente attribuiti alla storia: stabilire il discorso continuo, riempire le lacune, accorciare le distanze, rendere vivo chi non lo è più, indicarlo come contemporaneo. Se si portasse al l'estremo il discorso continuista della storia si finirebbe per eliminarla dal nostro orizzonte e forse questo è ciò che, come ricorda François Hartog, sta accadendo nella contemporaneità segnata dal presentismo, dove niente passa. A questa visione si contrappone quella secondo cui la possibilità di fare storia inizia quando si indica una cesura o una differenza nella linea del tempo. Così si arriva ad assumere e dichiarare che un "fatto" è ineluttabilmente passato, anche se questo implica nuove sfide per la costruzione dell'identità.
Per l'uomo del Cinquecento, che si trovava in bilico tra il sistema premoderno e la prima modernità, tutto ciò che era percepito come novità destava una forte diffidenza. Ogni minaccia a quell'ordine significava una catastrofe. L'affiorare della novità doveva legittimarsi: questo sarà lo strenuo sforzo della Riforma protestante e della cosiddetta Controriforma Cattolica. Entrambe, ricorrendo alla storia, dovranno cercare la propria validità nell'origine antica, nella Chiesa primitiva. La novità potrà entrare in scena solo se ammantata del velo dell'antichità. Modernus era un termine che nell'antichità e durante il Medioevo aveva un uso retorico: i singoli autori erano inquadrati nel binomio antiqui/moderni. Solo dal secolo XVII la categoria modernus servirà al sistema sociale per autodescriversi. La novità, che prima era percepita come minaccia, adesso si trasforma in valore discriminante: la società, non riuscendo più a comprendersi, esalta il nuovo a scapito del vecchio.
Per la prima modernità la verità diventa plurale. La complessità della struttura sociale aumenta di pari passo con le innovazioni intorno alla macchina per la stampa. Nelle "guerre per la verità" la scrittura della storia avrà un compito predominante. Sarà la storia a fornire l'arsenale per difendere i diversi bastioni di verità. Così la intese già Cervantes nel suo Chisciotte: «La verità, la cui madre è la storia»... la storia incrementerà la pluralità della verità. È precisamente questa frase che Jorge Luis Borges metterà in risalto nello sforzo impossibile della riscrittura del Chisciotte tentata dal suo Pierre Menard (Pierre Menard autore del Chisciotte, in Finzioni). La mise en abîme di Cervantes riguardo al problema del l'autore e perfino dell'esistenza del suo libro è rilanciata da Borges per mezzo di Pierre Menard. Come saggio dell'operazione di riscrittura da parte di Menard, Borges sceglie questa frase: «La verità, la cui madre è la storia»… Identica nella forma, diversa nella ricezione. Lo sforzo di Menard parla della nostra modernità, nella quale il lettore diventa autore di ciò che legge, e denuncia la responsabilità di ogni lettore riguardo all'opera che tiene tra le mani. Conclude Borges: «La storia, madre della verità; l'idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l'indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne».

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