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Questo articolo è stato pubblicato il 18 dicembre 2011 alle ore 08:18.

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«L'asino che mette il proprio carico in groppa al padrone e lo picchia, il professore trascinato davanti al giudice per aver schiaffeggiato lo studente che lo insultava, il bue che con il coltello taglia a pezzi il macellaio, gli oggetti dichiarati "barocchi" da Koons. Fine di un mondo». Com'è bello essere catastrofisti quando c'è aria di catastrofe in giro: tutti ti danno ragione. Così Jean Clair, che sta ottenendo un successo editoriale insperato con un nuovo libro in cui ripete ciò che diceva da anni, ma forse con meno veemenza.
Si scandalizza perché l'arte è scandalosa e guarda al corpo nelle sue deiezioni. E cosa lui fece se non esporre questo, con corredo anche di immagini scientifiche, nella sua mostra «Masculin/Feminin» (1995)?
Si lamenta di un' "arte dei folli" coccolata da musei autoreferenziali. Ma dove ha lavorato Jean Clair se non al Centre Pompidou e al Musée Picasso? E se a Clair non piace l'arte contemporanea, perché mai ha accettato di dirigere la Biennale del Centenario, quella del 1995, con una mostra che ricopiava in sostanza «Masculin/Feminin» e che pretese di installare non ai Giardini, ma in quel Palazzo Grassi che ora definisce "pacchiano"?
Clair crede forse di dirci qualcosa di nuovo spiegandoci che esiste un gruppo di gallerie e di opinion leader che hanno più potere di altri nel determinare il valore economico e anche culturale dell'opera. Ma Arthur Danto, Lawrence Alloway, George Dickie, Howard Becker, Raymonde Moulin e da noi Achille Bonito Oliva vanno discutendo del cosiddetto sistema dell'arte almeno dal 1964. Chiunque si occupi d'arte contemporanea, se non è uno sprovveduto, sa che ci sono tre artisti che guadagnano bene grazie a una mafia di tre gallerie. Così come tutti sanno che l'investimento in arte contemporanea è il meno tracciabile, il meno tassabile, il più adatto a riciclare denaro, il più azzardato ma anche quello che offre maggiori speranze di decuplicare il capitale o almeno di nasconderlo.
Sai che novità. Ma dire che l'arte è tutta e solo speculazione vuol dire buttare l'acqua col bambino, oltre che, nel caso di Clair, sputare nel proprio piatto. Tanto più che nelle sue mostre (per esempio «Cosmos, 1999», Venezia e Montreal) esponeva opere di nomi come Thomas Ruff e Kiki Smith che fanno parte esattamente di quel gotha di gallerie. E perché dire che non esiste più alcuna abilità richiesta nel fare arte visiva, quando un'installazione di Ilya Kabakov e molte altre opere che Clair ha esposto o solo commentato, richiedono una regia realizzativa addestratissima?
Dovremmo invece chiederci perché l'arte contemporanea continui a essere un ambito tanto simbolico e anzi acceleri la sua presa al punto che la maggior parte delle nuove capitali vuole dotarsi di un grande museo. L'incoerenza è una brutta malattia e il sentirsi messi da parte l'aggrava.
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Jean Clair, L'inverno della cultura, Skira, Milano, pagg. 112, € 16,00

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