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Questo articolo è stato pubblicato il 18 dicembre 2011 alle ore 08:18.

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Crocevia di molti misteri italiani, il generale dei carabinieri Mario Mori ha scritto un libro autobiografico, che si legge come una spy story ma al quale ha affidato il suo grido d'innocenza contro i magistrati di Palermo che lo processano per favoreggiamento della mafia, accusandolo di non avere volutamente arrestato Bernardo Provenzano dopo avere messo le manette a Totò Riina. Del processo nel libro si tace; ma la tesi che attraversa le 149 pagine equivale a una linea di difesa: contro le grandi organizzazioni criminali è necessario adottare strategie «border line», a partire da spregiudicati contatti sotto copertura per indurre l'avversario a fidarsi, e scoprirsi. Strategie che però, con una magistratura non altrettanto flessibile, possono costar care agli uomini dello Stato che le adottano.
Pioniere in Italia di queste tecniche fondate sull'uso di infiltrati fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale Mori (nato a Postumia nel 1939, prima al Sid, poi numero uno del Ros e del Sisde), fu allievo. Narrate in prima persona con efficacia giornalistica, il lettore troverà la cronaca di alcune delle più brillanti operazioni compiute dalle forze dell'ordine italiane negli ultimi decenni. A cominciare da quella – e qui davvero pare di stare al cinema – durante la quale a Napoli un ufficiale del Ros, fingendosi un imprenditore corrotto, convoca in un lussuoso albergo esponenti delle ditte legate alla camorra e ai partiti per discutere – sotto l'occhio di una telecamera nascosta – come spartire la torta dei subappalti per la Tav. O l'operazione nella quale il mafioso Giovanni Bonomo, rifugiato a fare il mercante d'arte in Costa d'Avorio (senza trattato di estradizione con l'Italia), viene attirato con la prospettiva di un affare, e arrestato, nel vicino Senegal.
E ci sono, naturalmente, gli episodi più controversi. La ricerca di un contatto con Vito Ciancimino per ottenere «informazioni di prima mano» sui piani della mafia, di cui Mori decide di tacere con la Procura nella grave convinzione che «non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». O il rinvio della perquisizione di casa Riina dopo l'arresto del 1993 (oggetto di un altro processo e di un'assoluzione), deciso, sostiene, «perché se fosse avvenuta immediatamente tutte le persone che la frequentavano si sarebbero sentite bruciate». O la mancata cattura nel 2006 del super boss mafioso Matteo Messina Denaro, che il Sisde era riuscito ad agganciare tramite un doppiogiochista, a causa dell'intervento della Procura di Palermo che mette quest'ultimo sotto inchiesta in quanto «non si è fidata».
Nelle ultime pagine, un'altra goccia di veleno indirizzata al comando generale del l'Arma: «Io, e credo anche molti altri carabinieri, avremmo gradito non una difesa delle singole persone, ma del Ros». Perché pure alla militaresca consegna del silenzio, evidentemente, c'è un limite.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Mario Mori, Giovanni Fasanella,
Ad alto rischio, Mondadori, Milano, pagg.248, € 17,50

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