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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2011 alle ore 13:48.

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Ecco i personaggi letterari del 2011 (Marka)Ecco i personaggi letterari del 2011 (Marka)

Non c'è gara: i più numerosi sono gli chef e gli assassini. Le librerie, trasformate in commissariati e in scuole di cucina, li hanno accolti negli ultimi anni con grandi onori. Non eravamo stufi dell'Italia spaghetti-e-pistola sbeffeggiata dalle copertine straniere di trent'anni fa? E soprattutto: gli altri? Quelli che non vanno oltre l'uovo al tegamino e hanno la fedina penale limpida? Il rischio è perderli di vista.

I personaggi letterari sono una folla in perenne incremento, anche nei paesi a natalità zero. Schedarli è un'impresa impossibile. I dizionari – come il benemerito Bompiani – restano sempre e comunque indietro: non fanno in tempo a mettere al sicuro Agostino, Marcovaldo e Pereira, che ne hanno lasciati per strada il triplo. Così, anche chi volesse – a fine anno – fare la conta di quelli recenti, dovrà arrendersi all'ipotesi che i più interessanti potrebbero essergli sfuggiti. Va come negli incontri fra esseri umani: casualità e stati d'animo hanno la meglio sulla volontà di controllo.

Faremo il tentativo di aggregarli per affinità, tralasciando gli chef e concentrandoci intanto sugli assassini. O meglio, su una particolare qualità di assassini: quelli che non abitano nei romanzi gialli. Sono spesso più affascinanti e psicologicamente complessi dei loro colleghi più esperti. A volte, hanno lineamenti così evanescenti che basta allontanare un istante lo sguardo per dimenticarli: «Le sue caratteristiche non si fissavano nella memoria. In questo senso assomigliava a un insetto abile a mimetizzarsi», scrive Murakami Haruki della protagonista del monumentale 1Q84 (Einaudi), Aomame. Sembra una ragazza qualunque, ma nasconde un rompighiaccio nella borsetta. A volte, sono ragazzini disubbidienti – come Mète, in Baci scagliati altrove (Fandango) di Sandro Veronesi: un pomeriggio normale diventa sanguinoso. La vittima è una povera tartaruga, che sorprendentemente sopravvive all'agguato. È così che Mète si trova «semplicemente dinanzi al Male, quel dato di fatto che aveva reso tanto severa la sua educazione, e non si sapeva nemmeno dove fosse, dove si nascondesse, per poi balzarti davanti all'improvviso».

L'ultima raccolta di racconti di Antonio Debenedetti accosta, nel titolo, gli assassini agli angeli (Il tempo degli angeli e degli assassini, Fandango). La zona più avventurosa e allarmante di queste pagine è quella in cui Debenedetti mostra come, dal niente o quasi, si diventa vittime. Il povero Saverio Jandoli, intellettuale di grido, si avvia senza saperlo incontro alla morte, accettando semplicemente l'invito per una conferenza fuori città in un pomeriggio piovoso; così come una signora in tailleur ignora che chi finge di riconoscerla («Che bello incontrarti dopo tanto tempo!») è il suo immotivato omicida, «flessuoso più che magro, pallido quel tanto che basta a passare inosservato tra i passeggeri d'un mezzo di trasporto pubblico a fine giornata». Ecco un altro camaleonte, con l'unico distintivo di un marcato difetto di pronuncia, sprofondato nella sua follia di un suo cinema mentale: «Per lo sconosciuto, d'altronde, le cose hanno senso come lo hanno nei film. Riguardano un copione».

A spiegare perché il giallo abbia tanta forza nelle epoche di crisi – col loro «diffuso senso di colpa», con lo «sgomento di un'imminente catastrofe» – bastano le parole del critico americano Edmund Wilson, datate 1945: «I sospetti cadono a turno su tutti, le strade sono piene di agenti segreti non sappiamo al servizio di chi. Nessuno pare innocente, nessuno è sicuro; e poi, a un tratto, si scopre l'assassino e – oh sollievo! – alla fin fine si tratta di uno come voi e me». Appunto.
E gli angeli? Gli angeli veri, come la suorina del racconto Sotto le ali del caso di Debenedetti, i finti e più pericolosi angeli delle tentazioni erotiche (vedi gli ultimi Amis, Bennett, Baker e perfino Starnone), e poi gli angeli caduti e ribelli dell'inatteso e tenerissimo La traccia dell'angelo (Sellerio) di Stefano Benni. Scortano il protagonista Morfeo nel tunnel avventuroso e buio della malattia. Uno di loro – Gadariel – si rivolta contro il dio delle medicine: «Non potrò essere sempre buono, non è quella la mia strada. Ma sarà bello vivere in mezzo agli altri, con le ali aperte, coprirli dal troppo dolore».

Ha qualcosa di terribilmente angelico Elisabeth Fritzl, segregata e violentata dal padre per oltre vent'anni, nel romanzo d'esordio Elisabeth (Einaudi): Paolo Sortino sfida con l'immaginazione l'abisso di una tragedia reale e inventa lo sguardo e l'udito di questa ragazza prigioniera, che si aggrappa ai dettagli per sopravvivere: «di ogni ombra proiettata contro il giardino avvertiva lo spessore (…) Affilò alla perfezione i suoi sensi. Pareva avere più qualità di quelle concesse all'essere umano. Come avesse un numero di animali che in lei si erano fatti la tana».

Nell'anno più nero della crisi economica, si sono affacciati nei romanzi personaggi vocati all'accumulo di denaro, soggiogati dal fascino delle monete. Non solo avari o un po' tirati, come i nonni di Patty in Libertà di Jonathan Franzen. Peggio. «Da bambino, negli anni Ottanta, avevo cercato di vendere a mamma e papà la mia cameretta» confessa Vic Gamalero, voce memorabile di un trentenne ossessionato dai soldi nel romanzo di Gianluigi Ricuperati Il mio impero è nell'aria (minimum fax). Avido e spaventato dalla sua stessa avidità, Gamalero è sempre in allarme, come nel timore di qualche improvvisa nemesi. Così pure il Tommaso inventato da Federica Manzon in Di fama e di sventura (Mondadori) compie la sua corsa dentro e contro il tempo fino a ottenere un posto da dirigente di banca e «un contratto con molti zeri», ma sente che in agguato potrebbe esserci un Dio pronto a punirlo. Tommaso «non avrebbe mai potuto dire che non gli interessavano più i cieli stellati e le galassie luminose. Io non avevo capito il fascino che esercitava su di lui l'imponente entrata della società di assicurazioni, il suo portone da duomo con i leoni ai lati della scalinata e il vento che faceva sventolare sul tetto la bandiera da Repubblica conquistatrice». D'altra parte, è sicuro di aver letto da qualche parte che il settanta per cento degli esseri umani sogna un lavoro in una banca d'affari. Può darsi. Certo sono in pochi a sognare una vita da agenti del Fisco, da «eroi burocratici» come quelli descritti da David Foster Wallace nel romanzo postumo Il re pallido (Einaudi) – con quella noia malinconica che attraversa giornate tutte uguali. «Io volevo essere uno di loro – si legge a un tratto –. Il tipo che sembra ancora più eroico perché nessuno lo applaude né lo considera», «il genere di persona che al ballo ci va per fare le pulizie, non per suonare nell'orchestra», «il tipo tranquillo che ripulisce e fa il lavoro sporco».

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