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Questo articolo è stato pubblicato il 24 dicembre 2011 alle ore 11:39.

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Domani, 25 dicembre, si commemorano, oltre la Natività, una quindicina di beati e di santi, tra cui Iacopone da Todi. Sì proprio lui, il grande poeta francescano. È una delle sorprese che ci riserva il Dizionario ragionato dei Santi di Michele Francipane, or ora pubblicato da Àncora.

Sebbene molte delle letture natalizie che ospitiamo in questo numero speciale, a partire da quella di Olmi qui a fianco, abbiano come sfondo la recessione economica e lodino la virtù di chi sa privarsi del superfluo, nessuna è estrema come quella di Iacopone. Egli riteneva che, per assicurarsi la vita eterna, non basta astenersi dai piaceri, dalle ricchezze o dai vizi.

Bisogna pregare per ricevere in dono ogni possibile sofferenza. «O Segnor, per cortesia, / manname la malsania / (...) a me venga mal de denti, / mal de capo e mal de ventre, / a lo stomaco dolor pugnenti», e via dicendo, fino a elencare parossisticamente ‐ con effetti che a noi finiscono per suonare esilaranti ‐ l'intera gamma delle malattie conosciute, fino alla cecità e, infine, a una morte terribile, dopo la quale Iacopone immagina di essere divorato da un lupo che ne restituirà poi le 'reliquie' attraverso le feci. Iacopone, come san Francesco, era un tipo estremamente coerente. Si era spogliato anch'egli delle ingenti ricchezze paterne e aveva fatto della povertà il proprio stile di vita. D'accordo, esagerava, ma non è che Francesco fosse da meno.

Nel Cantico delle Creature non dimenticò di ringraziare Dio «per sora nostra morte corporale». Anche per lui il corpo è causa costante di peccato e solo con la sua morte l'anima potrà assurgere alla dimensione puramente spirituale (per poi, non dimentichiamolo, incontrare nuovamente il corpo nella valle di Josaphat nel giorno del Giudizio). Nel canto XI del Paradiso, Dante definisce Francesco «dispetto a meraviglia», cioè capace di generare scandalo per il suo mostrarsi trasandato e incurante dell'igiene personale. Cioè possiamo dirlo? puzzolente.

he era un modo per comunicare alla gente intorno la sua personale critica sociale, sbeffeggiando il consumismo ante litteram della borghesia mercantile del suo tempo. I versi di Dante vanno dunque letti come un complimento. Francesco era appena tornato dalla Terra Santa e nella notte di Natale del 1223, nel paesino di Greccio, mise insieme una mangiatoia e pochi attori scelti tra i contadini. Era il primo presepe vivente. Tutti i personaggi erano umili e miseri, cioè individui che considerava simili a sé. I più adatti per celebrare, attraverso una lezione di povertà, il mistero dell'incarnazione di Dio nel corpo del bambino Gesù.

Questo è il senso del presepe, la ragione per cui, come accade in casa Cupiello, non potrà non piacere anche a chi non ci crede. Un inno alla povertà che senza spingerci all'estrema mortificazione della carne di Iacopone ci suggerisce uno degli esercizi filosofici più antichi, già praticato dai cinici, veri maestri di essenzialità, e che in questi giorni di compere forsennate ci ricorda il loro grande maestro, anch'egli maleodorante: quel Socrate che, camminando tra le bancarelle del mercato ricolme di oggetti, esclamava divertito: «Quante belle merci, che non mi servono!».

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