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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2012 alle ore 08:21.

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Dopo la morte prematura del figlio, una vedova ebrea viveva da sola con la nuora cristiana. Trattata come una serva, costretta a lavorare di sabato e a mangiare nel giorno di Kippur, «la povera vecchia ricordava lo schianto del suo cuore» quando il figlio le aveva annunciato di voler sposare «quella donna che i suoi amici cristiani meno stupidi di lui avevano pagata e lasciata ad altri». Da subito dopo il matrimonio, la sgualdrinella aveva rinfacciato al marito le sue origini ebraiche; e gli aveva imposto al capezzale «un crocifisso che le avevano dato le monache», «un'immagine alla quale tutti i capiscarichi di cattivo gusto avevano appesa la pipa» prima di assaporare le «gesta erotiche» dell'ex educanda. Ma la povera vecchia ricordava anche un'altra ragazza, «una dolce fanciulla ebrea, buona e gentile e modesta» che «sarebbe stata beata di sposare Bonaiuto»: «quanto sarebbero stati tutti felici... ora nessuna speranza più...».
Scritto da tale Gino Racah e pubblicato nel 1906 sul Vessillo Israelitico, la principale rivista ebraica dell'Italia liberale, il racconto Tristi effetti illustra un incubo caratteristico delle minoranze religiose di allora e di poi: la paura che un'integrazione nella cultura maggioritaria possa risolversi in un'assimilazione. Cioè la paura che un guadagno, l'accesso ai diritti, possa risolversi in una perdita, l'abbandono dei doveri. A cominciare dal sacrosanto dovere di sposarsi all'interno della comunità d'appartenenza, rifuggendo la tentazione perniciosa del matrimonio "misto".
Nel 1861, con l'Unità, i trenta o quarantamila israeliti che abitavano il nuovo regno d'Italia si erano visti riconoscere la pienezza dei diritti civili e politici: erano divenuti cittadini come gli altri oltreché sudditi della monarchia sabauda. Naturalmente, gli ebrei italiani avevano accolto con sollievo questa uscita dai ghetti, la tanto sospirata «emancipazione». Ma avevano presto dovuto fare i conti con il prezzo dell'eguaglianza: con la necessità di uniformarsi ai princìpi come ai codici dell'Italia laica, rinunciando a una separatezza che aveva garantito loro – in passato – la sopravvivenza sia di antichissime usanze rituali, sia di istituti quali i tribunali rabbinici. Essere italiani come tutti gli altri poteva, e forse doveva significare essere meno ebrei di prima? Questo il dilemma che accompagnò la vita delle comunità israelitiche nel mezzo secolo compreso fra l'unità d'Italia e la Grande Guerra.
È un dilemma di cui Carlotta Ferrara degli Uberti ha ricostruito le implicazioni in un libro pubblicato dal Mulino, Fare gli ebrei italiani. Dove appunto si guarda al processo di "nazionalizzazione" degli israeliti nell'Italia liberale, e si misura come tale processo sia stato – al tempo stesso – agevole e faticoso. Fu agevole, perché la minoranza ebraica condivideva con la maggioranza cristiana tutto un bagaglio di valori che noi potremmo definire (semplificando) borghesi o piccolo-borghesi. Fu faticoso, perché la logica delle culture di minoranza intrinsecamente comporta una frizione tra diritti collettivi e diritti individuali. Quando si tratta di rivendicare diritti collettivi, le minoranze religiose ragionano quasi sempre con spirito liberale. Ma quando si tratta di concedere diritti individuali, le medesime minoranze tendono a relegare il liberalismo in soffitta.
L'attacco contro i matrimoni misti fu soltanto una delle forme di chiusura identitaria dell'ebraismo italiano di fine Ottocento. Altre riguardarono la difesa a spada tratta della circoncisione, contro le critiche di chi denunciava ogni mutilazione genitale come lesiva dei diritti umani; o la strenua difesa del levirato (l'obbligo fatto al cognato di sposare una donna rimasta vedova senza figli), a tutela del cognome del defunto e dell'integrità del suo patrimonio. Né tali forme di chiusura identitaria si limitarono al terreno di una difesa teorica e pratica dei precetti trasmessi dalla Bibbia. I riflessi difensivi di una comunità che si sentiva tanto più minacciata quanto più emancipata investirono anche una burocrazia che si intendeva far valere da pegno dell'ortodossia: per esempio, sotto forma dell'iscrizione coatta di ogni ebreo italiano alla Comunità israelitica di sua pertinenza.
Se poi – come fu il caso, nel 1914, del deputato socialista Giuseppe Emanuele Modigliani – un ebreo italiano si ribellava, in nome della libertà di opinione religiosa, al principio di tale iscrizione coatta e addirittura ne chiedeva ragione in Parlamento, poteva capitare che il Vessillo Israelitico lo accusasse di capeggiare una «coalizione ebreo-antisemita contro l'Ebraismo costituito». E poteva capitare che il più diffuso fra i periodici israeliti invocasse l'aiuto delle istituzioni statali contro quanti tradivano il popolo di Mosè: «l'Ebreo Modigliani ha ancora bisogno che il governo d'Italia gl'insegni che la propria qualità di Ebreo non si perde né con una istantanea dichiarazione verbale né con un tratto di penna».
Poteva capitare insomma, all'indomani dell'affaire Dreyfus e alla vigilia della prima guerra mondiale, che gli ebrei italiani parlassero tali e quali come gli antisemiti. Senza capire quanto il clima fosse cambiato in Europa proprio intorno al caso Dreyfus; e senza misurare i rischi di un arroccamento che avrebbe offerto nuova benzina alla macchina mitologica dell'antisemitismo. Al di qua come al di là delle Alpi, gli ebrei avevano talmente interiorizzato il discorso di fine Ottocento sulle "razze" e sulla "degenerazione" da appropriarsene essi stessi: senza intuire come quel discorso preludesse, in un modo o nell'altro, all'orrore più grande del Novecento.

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