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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2012 alle ore 08:13.

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Quale gioia dona il secolarismo? Da questa sponda dell'Oceano, dove un tentativo come quello ungherese di scrivere una costituzione che lo nega viene prontamente biasimato dall'Europa e dagli stessi cittadini di quel Paese, viene da ragionare nei termini del lungo percorso storico che conduce a degli Stati europei in cui l'interferenza dei poteri religiosi si minimizza o azzera progressivamente: sebbene sia difficile stabilirne l'inizio, percorso positivo per le sue ricadute democratiche anche, ma non solo, declinate attraverso il pluralismo religioso, nonché attraverso aspirazioni anti-fondamentaliste. Diremmo così che la gioia di vivere in società secolariste risiede nell'eguaglianza, nell'equità, nella libertà; volendo impiegare un termine unico, nei diritti, oltre che nei doveri, doveri però che non conducono a consegnarci nelle braccia dell'ateismo, cosa invece che ci raccomandano con insistenza un Richard Dawkins o un Christopher Hitchens. Libertà è pure libertà di essere credenti, agnostici, atei.
Dall'altra sponda dell'Oceano, la gioia del secolarismo, agognata o provata, sembra andare oltre. Lo attesta George Levine che chiama a raccolta undici autorevoli voci (una italiana, Paolo Costa), di diversa provenienza, scientifica e umanistica, il che è di per se stesso meritevole: antropologi, biologi, esperti di teorica politica, etologi, filosofi, letterati, psicoanalisti, specialisti di intelligenza animale, storici della scienza e della medicina. Il fine consiste nel sottolineare, seppur con le auspicabili divergenze, che questa gioia risiede in una vita terrena soddisfacente, piena di senso, spirituale, priva della necessità di un aldilà. Certo, ciò non esclude che se ne dia la possibilità, ma Levine è fermo nel volerci restituire, attraverso le undici voci, una visione positiva, non negativa, della condizione secolarista, una glorificazione del mondo naturale e sociale che sperimentiamo quotidianamente e in cui secolarismo significa benessere.
Sarò di parte, in quanto epistemologa, ma il miglior contributo si deve a Philip Kitcher, in apertura del volume, per le buone argomentazioni, per le posizioni estranee a quelle che lui stesso attribuisce agli atei darwinisti, stando a cui i giochi si chiuderebbero non appena in possesso di una qualche evidenza contro il soprannaturale, per il rammentare (agli americani, specie ai predicatori televisivi non fa affatto male) il dilemma presente nell'Eutifrone di Platone, con cui si deve confrontare ogni tentativo di giustificare l'etica per mezzo della religione, e, soprattutto, per la seria considerazione delle sfide e delle obiezioni contro il secolarismo: senza tale considerazione, risulta dogmatica l'esaltazione del secolarismo stesso. Sostenere che il contributo di Kitcher sia il migliore, non comporta che gli altri non destino interesse; basti menzionare la differenza, spesso ignorata e qui evidenziata da Bruce Robbins, tra l'eliminazione dell'incanto, o la cancellazione del senso dell'esistenza, e la sparizione del magico, di conseguenza dell'Entzauberung di Max Weber: non ci incantiamo forse di fronte allo spettacolo della natura, senza attribuirle alcuna origine magica o soprannaturale?
Sebbene costituisca una buona lettura, non vanno taciuti alcuni nei del volume: una certa confusione tra agnosticismo, ateismo, secolarismo, nonché tra trascendente e trascendentale; una visione di una religione che intenderebbe conferire senso alle nostre esistenze nel mondo terreno, senza problematizzare dovutamente il rapporto tra terreno e ultraterreno; la mancanza di espliciti riferimenti a Tommaso d'Aquino e alle sue riflessioni sul mondo naturale-materiale, così come i pochi riferimenti a Hume e alle sue argomentazioni, non sempre valide, contro i miracoli; l'idea ricorrente, stando cui la religione avrebbe ben poco da spartire con la razionalità (per supplire, si consiglia l'ultima opera di Robert Audi, Rationality and Religious Commitment, Oxford University Press, pagg. 328). In effetti, al termine della lettura di The Joy of Secularism, si percepisce netta la carenza di un contributo firmato da un buon filosofo della religione. Per di più, si ignora Thomas Nagel. Lo sottolinea, dalle pagine di «The New Yorker», James Wood che menziona The Absurd («Journal of Philosophy», 1971, pagg. 716-727) in cui Nagel ci indica che, se il senso dell'esistenza consiste nell'assurdità di questa, occorre porvi rimedio non con l'eroismo, né con la disperazione, bensì con l'ironia. A dispetto della gioia, peraltro ingenua, che ci prospetta Levine, è innegabile che sperimentiamo l'assurdità, spesso e dolorosamente. Che fare? Il suggerimento di Nagel mi induce a rivedere Monty Python's The Meaning of Life, per sorridere, non senza amarezza, al commento finale: il senso della vita non è niente di speciale.
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The Joy of Secularism: 11 Essays for
How We Live Now, a cura di George Levine, Princeton University Press, Princeton & Oxford, pagg. 272, $ 35,00

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