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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2012 alle ore 17:10.

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Eugenio Garin apparteneva a quella generazione di studiosi i quali (come anche Norberto Bobbio e Nicola Abbagnano) si sono formati e hanno cominciato a scrivere durante gli anni del fascismo e sono diventati più tardi – nel ventennio successivo alla Seconda guerra mondiale – figure di riconosciuti maestri. Dopo la metà degli anni Cinquanta, in specie dopo la recensione di Palmiro Togliatti alle Cronache di filosofia italiana del 1955, Garin, oltre a scrivere libri di storia della filosofia e di storia degli intellettuali, assunse la funzione di «grande intellettuale civile».

Il libro «Eugenio Garin: un intellettuale nel Novecento» (Laterza, Roma-Bari, pagg. 164, € 20,00) di Michele Ciliberto, che di Garin è stato scolaro, ha un primo e molto rilevante merito: quello di mettere in chiaro alcuni punti fondamentali: 1) L'immagine di Garin che deriva dalla sua attività posteriore alle Cronache rappresenta «una sorta di filtro, spesso insuperabile, rispetto al Garin degli anni Trenta e Quaranta» e rispetto alle tesi che egli aveva sostenuto sino al celebre libro del 1952 sull'umanesimo italiano; 2) Si ha anche l'impressione «che egli si sia quasi censurato, cancellando le tracce» rifiutando (per esempio) le molte offerte di una ristampa del suo libro su Pico della Mirandola del 1937 e di quello sui moralisti dell'illuminismo inglese del 1941 del quale disse nel 1983 che «non si riconosceva più». 3) Nella seconda metà degli anni Trenta e nei primi anni Quaranta Garin era su posizioni indubbiamente definibili come esistenzialismo religioso. Gli autori che sente vicini, ai quali guarda con ammirazione, che propone come modelli, sono principalmente Lavelle, Blondel, Maritain, Jankélévitch e soprattutto Gilson. 4) L'incontro con gli scritti di Gramsci furono decisivi nel liberare Garin dalla "tentazione religiosa". Si trattò, per usare le sue stesse parole, di «una esperienza decisiva, che durò a lungo». Garin sceglieva con cura le parole: a lungo non vuol dire per tutta la vita. 5) Negli anni Settanta (come lucidamente mostra questo libro) il quadro cambia nuovamente «gli elementi drammatici dell'esistenza umana ritornano in primissimo piano, spingendo nel fondo del quadro la dimensione civile» che si era configurata negli anni Cinquanta e Sessanta quasi come «un'ancora di salvezza». Emergono, in quest'ultima fase, come per esempio nei fondamentali saggi sull'Alberti, toni decisamente nichilistici. Questo è, per così dire, lo scheletro del libro, che è ricco di analisi dettagliate e sottili e di non pochi riferimenti a Delio Cantimori e Cesare Luporini.

Anch'io, come Ciliberto, sono stato allievo di Garin. Lui si è laureato nel 1968, io nel 1946. Il mio primo esame aveva come testo principale le oltre seicento pagine dell'Action di Maurice Blondel e conservo ancora una lettera dove mi si consigliava una lettura della Alternative di Vladimir Jankélévitch. Garin considerava la lucidità e la chiarezza come valori, non amava le semplificazioni e a esse contrapponeva le analisi sottili.

Sono più volte mutati i suoi punti di riferimento, ma la messa in luce della coesistenza di cose contrastanti, l'amore per le sfumature, il rifiuto delle dicotomie rozze, la convinzione che il passato sia pieno di cose sconosciute non lo abbandonarono mai. Sapeva perfettamente anche una cosa che tutti i piccoli maestri amano dimenticare. Che il sapere cresce perché ci sono maestri e soprattutto, perché ci sono scolari che si distaccano dai loro maestri. Sapeva che il rapporto tra maestri e scolari è, come quello fra padri e figli, un rapporto difficile. Sapeva che i maestri devono essere amati e rispettati, non ripetuti e che quelli che Galileo (facendo riferimento al loro maestro Aristotele) chiamava «i trombetti» non hanno mai dato contributi alla crescita del sapere.

In un mondo nel quale le lodi non venivano (come spesso oggi accade) regalate per aumentare il numero degli studenti, il massimo dei voti alla tesi equivaleva di fatto a una lettera di presentazione. Era una sorta di invito ad accogliere un novizio che veniva rivolto ai membri di una vasta comunità di studiosi: «Mi sono laureato a Firenze con Eugenio Garin». Questo è stato per me (e per moltissimi altri) un biglietto da visita straordinario. Il modo in cui (nel 1959) fui accolto al Warburg Institute da Gertrud Bing, Otto Kurz, Ernst Gombrich, Arnaldo Momigliano, Frances Yates dipendeva dalla mia provenienza scientifica, era legato alla stima grandissima e all'ammirazione che quegli studiosi nutrivano per il mio maestro.

Quella stima e quell'ammirazione non erano per nulla dipendenti dalla figura di Garin intellettuale civile. Dipendevano dalle molte pagine da lui dedicate alla storia intellettuale europea. Questo libro ci mostra che dietro quelle pagine sono nascoste molte scelte drammatiche e molta sofferenza.

21 agosto 2011

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