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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2012 alle ore 08:13.

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Gli intellettuali conservatori e la base elettorale della destra americana stanno combattendo una guerra culturale senza precedenti. In gioco c'è il futuro del conservatorismo americano, e non solo. C'è chi è convinto che tra i caduti del conflitto ideologico in corso ci sia già quella formidabile filosofia conservatrice che negli ultimi trent'anni ha vinto gran parte delle battaglie culturali del suo tempo, ha fatto breccia nella sinistra moderna e ha fissato i termini dell'agenda politica globale. A uccidere il conservatorismo, o a ferirlo gravemente, sono stati i Tea Party, i movimenti di protesta antistatalista, i gruppi ribelli senza una visione nazionale, senza una filosofia coerente, ma con un forte disprezzo per le liturgie di Washington.
Da questo scontro tra le élite e i militanti della cosiddetta Right Nation nascono le attuali difficoltà repubblicane di trovare un candidato alternativo a Barack Obama. Un eccellente libro di Geoffrey Kabaservice, Rule and Ruin - The downfall of moderation and the destruction of the Republican party, from Eisenhower to the Tea Party (Oxford University Press, 482 pagine, 29,95 dollari) – riscopre le radici storiche di queto mutamento genetico della destra americana. Il filosofo Mark Lilla, in un saggio dal titolo Republicans for revolution pubblicato in questi giorni dalla «New York Review of Books», racconta la trasformazione del conservatorismo americano da movimento intellettuale capace di riflettere sulla natura umana e sul suo rapporto con la società all'espressione compiuta di una ribellione anti elitaria, giacobina e apocalittica.
A parlare di questi temi con la Domenica del «Sole 24 Ore» è Sam Tanenhaus, il direttore dell'inserto culturale «Book Review» del «New York Times», al lavoro da anni su una monumentale biografia del padre intellettuale della destra americana William F. Buckley e in precedenza autore celebrato di un saggio su Whittaker Chambers, l'ex spia sovietica diventato anticomunista e testimone chiave al processo per spionaggio contro il diplomatico del dipartimento di Stato Alger Hiss. Tanenhaus ha scritto anche The Death of Conservatism, la morte del conservatorismo, ripubblicato da poco con una nuova postfazione.
«C'è una divisione crescente – spiega – tra l'establishment culturale conservatore e la sua base militante». L'incomunicabilità tra i due mondi si percepisce dal faticoso processo di selezione del candidato alla presidenza. «Oggi l'élite culturale conservatrice sostiene Mitt Romney, anche se non lo ama – dice il direttore della «Book Review» – Ma la paura che i concorrenti antagonisti, da Ron Paul a Newt Gingrich, possano acquisire la guida del movimento costringe le istituzioni conservatrici più importanti d'America, ovvero le pagine degli editoriali del «Wall Street Journal» e la «National Review» che è la rivista fondata da Buckley, a sostenere Romney anche soltanto per difendere se stesse».
I Tea Party infatti non diffidano soltanto della cricca culturale, editoriale e mediatica liberal, ma anche di quella conservatrice. Sarah Palin è l'esempio citato da Tanenhaus. Quando i democratici l'hanno presa di mira, dopo che John McCain l'ha scelta come candidata alla vicepresidenza nel 2008, la replica alle accuse che riceveva è stata semplice: «Non importa che cosa dicono le élite liberal». Ma quando, passata quella fase elettorale, a Palin sono arrivate le critiche anche dal tradizionale mondo conservatore, preoccupato dalla deriva giacobina che stava prendendo il movimento, Tanenhaus ricorda che quel «non importa» è stato improvvisamente rivolto contro l'élite conservatrice. Altro esempio: «Una volta l'accusa più grave nel mondo conservatore era quella di essere un liberal, un progressista di sinistra. Oggi è quella di essere un moderato. Allontanare i moderati in nome della purezza ideologica è una ricetta per l'estinzione, non un piano per la vittoria elettorale». Per la prima volta, tra l'altro, si assiste a un fenomeno inedito: David Brooks, Mark Lilla, Francis Fukuyama, Fareed Zakaria, Michael Lind, Andrew Sullivan, David Frum e altri intellettuali conservatori tendono a fare il percorso inverso a quello che alla fine degli anni Sessanta hanno fatto i liberal Whittaker Chambers, Daniel Patrick Moynihan, Irving Kristol e l'intera pattuglia dei neoconservatori, tutti quanti delusi dall'ideologia progressista. «Il movimento intellettuale non è più da sinistra a destra, ma va in senso opposto», dice Tanenhaus. Non per merito o particolari capacità attrattive della sinistra o del centro, ma per effetto della rivolta giacobina e antielitaria interna al mondo conservatore.
Per cogliere l'origine di questo scontro ideologico, capace potenzialmente di sbriciolare le consolidate tradizioni politiche americane, c'è da tornare indietro al 1964, l'anno in cui è nato il movimento conservatore. Nel 1964, racconta Tanenhaus, Buckley e il senatore dell'Arizona Barry Goldwater guidarono la ribellione dal basso contro l'establishment del Partito repubblicano, allora rappresentato dall'aristocrazia della costa orientale: «Goldwater aveva l'organizzazione, il rapporto con i militanti, sapeva cogliere lo spirito ribelle del tempo. La genialità di Buckley è stata di riuscire a far coincidere le idee di una nuova classe intellettuale con il sentimento ribelle del movimento conservatore. Quasi cinquant'anni dopo i Tea Party provano a ripetere la presa del partito, questa volta senza l'ausilio di un collante ideologico e di una copertura intellettuale». La cosa bizzarra, secondo Tanenhaus, è che oggi l'establishment conservatore assediato dai rivoltosi dei Tea Party è costituito dagli intellettuali ribelli di allora, dalle stesse riviste di un tempo, dagli eredi ideologici di quell'epoca movimentista: «La "National Review" era la rivista del radicalismo di Goldwater, mentre oggi sostiene il moderato Romney». Gli ideologi diventati establishment, nota Tanenhaus, vogliono fermare gli ideologi che arrivano direttamente del movimento, sostenendo un candidato come Romney che non amano e che non è un ideologo. Dall'altra parte, i conservatori giacobini vogliono combattere ancora le stesse battaglie di un tempo. Non accettano compromessi. Sognano un futuro da ancorare all'era del liberismo estremista di Goldwater, tornato di moda a causa della crisi economica addebitata alle politiche interventiste di Bush e Obama. «Nessuno pare curarsi del fatto che Goldwater ha portato il mondo conservatore alla più grande sconfitta della sua storia - conclude Tanenhaus – Non è nemmeno vero che la débâcle elettorale del ribelle dell'Arizona abbia aperto la strada a Reagan. La presidenza Reagan è di una ventina di anni dopo. In mezzo c'è stato il trionfo del liberalismo progressista, l'avvio della gloriosa epoca della Great Society e la più maestosa espansione dello stato sociale di sempre».