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Questo articolo è stato pubblicato il 16 gennaio 2012 alle ore 12:21.

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Emanuele Ferragina ha ventotto anni e si infastidisce (giustamente) quando si sottolinea che è partito da Catanzaro per arrivare a Oxford perché ci vede quel pizzico di retorica, da cartolina, che fa tanto male all'Italia. Fa uno sbuffo, alza gli occhi al cielo, e dice: sono nato a Catanzaro, è vero, vuol dire che per fare quello che gli altri fanno in cento metri io ne devo fare centocinquanta, e allora? Come dire, occupiamoci di cose serie, e se vogliamo parlare di competizione ricordiamoci di usare i metri giusti.

Parla, davanti alla platea dei giovani imprenditori a Capri, ma è un po' come se urlasse, io sono seduto qualche poltrona più in in là, e ascoltarlo ritempra, ti viene voglia di abbracciarlo. L'urlo di chi fa, ha la forza espositiva dei numeri e scioglie fatto dopo fatto i tomi dell'autoreferenza italiana, la cura nei gesti, il linguaggio ricercato e, spesso, scandito da pause inappuntabili, insomma tutto ciò che riesce quasi sempre a coprire il vuoto delle idee e a confondere vero e falso.

Ferragina si occupa di capitale sociale, di politiche di welfare comparate, e non ha più voglia di fare finta di niente su quella retorica – tutta nostra – che spinge, ogni giorno, tanti, troppi a corrucciare il viso e ripetere solennemente il disco incantato della fuga dei cervelli. Rivendica il diritto suo, e di tanti come lui, a decidere di andarsene con la testa loro perché il mondo è grande, perché bisogna girare e fare esperienza se si vuole crescere davvero. Invita, piuttosto, a porsi il quesito di fondo, che è un altro e tutti rimuovono: perché non vengono da noi cervelli tedeschi, americani, francesi, magari cinesi, tanto per fare qualche esempio, o se non altro perché ne vengono sempre pochi e sempre meno? Soprattutto, dice una cosa profondamente vera: i cervelli sono fuori e dentro allo stesso tempo, sono lì, comunicano su internet, dialogano con gli uomini e le istituzioni italiane, la rete dell'intelligenza chiede solo che il nostro Paese decida di scommettere su di loro (dovunque siano), decida di investire sull'unico capitale che conta e, cioè, quello umano.

Lo deve fare lo Stato, di più e meglio, finanziando i progetti che meritano e utilizzando la leva fiscale. Lo devono fare le imprese, di più e meglio, tirando fuori capitali sonanti e mettendo in rete i saperi, l'innovazione di specialità, la forza del marchio italiano e l'intuito dei suoi talenti. Con un corollario non irrilevante che riguarda una parte dei nostri professoroni. La smettano di baloccarsi in dispute surreali per l'utilizzo della lingua italiana o di quella inglese, quasi che si possa tradurre tutto ma non una produzione scientifica, e accettino di farsi mettere i voti dai loro studenti.

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