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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2012 alle ore 12:22.

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Pete Best, batterista dei Beatles (Olycom)Pete Best, batterista dei Beatles (Olycom)

«I Beatles cambiano batterista!». Titolava così, nell'agosto del 1962, il periodico giovanile di Liverpool «Mersey Beat», facendo riferimento al turnover in corso nella più promettente band cittadina, alla vigilia del proprio debutto discografico per la Parlophone Emi: dentro il carismatico Ringo Starr, già membro di Rory Storm and the Hurricanes, fuori Pete Best.

E dire che quest'ultimo, quando due anni prima s'era unito al gruppo, sulle rive del Mersey era molto più popolare di John Lennon, Paul McCartney e George Harrison. Era figlio della proprietaria del Casbah, localino in cui i tre avevano mosso i primi passi dal vivo, e in più era «il bello», l'unico a vantare una schiera piuttosto nutrita di fan. Non a caso, a seguito del suo «licenziamento», qualcuna coniò addirittura lo slogan: «Pete forever, Ringo never!».

Ma si sa che la storia sa essere crudele: il Signor Best continua a esibirsi al Casbah, mentre i suoi vecchi tre compagni di merende hanno cambiato per sempre musica e costumi occidentali. In questi giorni sta per arrivare in Italia proprio per celebrare il cinquantesimo anniversario di «Love me do», primo singolo inciso dai Beatles: martedì 24 gennaio sarà al Pan di Napoli ospite di «Rock!», mostra evento organizzata da Carmine Aymone e Michelangelo Iossa, mentre il giorno successivo varcherà l'ingresso di Palazzo Plenilunio a Rutigliano (Bari). Ne abbiamo approfittato per ricostruire con lui i giorni che anticiparono il «big bang» della Beatlemania e provare a chiarire il mistero che circonda la sua estromissione dalla band. Che solo sir Macca potrebbe chiarire.

Se esiste un dizionario del rock and roll, alla voce Pete Best c'è scritto: «Quasi famoso. Artista che stava per fare la storia ma – suo malgrado – si è fermato sulla soglia del successo mondiale».

Ormai lei ha 71 anni: sono più i rimpianti o i bei ricordi?
Di rimpianti non ne ho. Ho fatto parte del gruppo che stava per cambiare la storia della musica. Ero lì, mentre stavamo/stavano ponendo le fondamenta. Non ha cambiato niente il fatto che loro dopo siano diventati ancora più grandi. Mi sono goduto ogni momento e non ho nient'altro che bei ricordi dei miei giorni da Beatle.

Lei si è unito ai Beatles alla vigilia del primo leggendario tour ad Amburgo. Com'erano all'epoca John, Paul, George e il povero Stuart
Sutcliffe?

L'intero gruppo era molto motivato. John era parecchio sardonico: ci faceva morire dal divertimento. Sapeva quello che voleva, tant'è vero che alla fine se l'è preso. Paul era l'uomo delle pubbliche relazioni, teneva la gente al corrente di quello che stavamo facendo. Un polistrumentista. Il suo talento traspariva, alla fine. George era tranquillo. Stava sempre a esercitarsi con la chitarra in mano. Il tipo che vuole sempre saperne di più. Stuart era l'artista del gruppo. E un buon bassista, al contrario di quello che si è detto. Insomma: eravamo una grande rock and roll band.

Si è detto molto anche della sua «cacciata» dai Beatles. Il manager Brian Epstein, nella sua autobiografia, scrisse che furono i ragazzi a volerla fuori dalla band dopo il primo provino alla Parlophone. Altri sostengono che lei non convinse il produttore George Martin. Qual è la sua versione della storia?
Non ho la più pallida idea di quello che accadde. Oggi c'è una sola persona vivente che conosce la verità. Si chiama Paul McCartney.

Quest'anno ricorre in cinquantennale di «Love me do», il primo singolo inciso dai Beatles. Lei che ha avuto modo di assistere alla genesi della canzone, cosa può dire del metodo di lavoro di Lennon e McCartney?
Lo adoravo. John o Paul portavano le parti di base di un pezzo e tutti quanti ci davamo dentro per farlo funzionare. Una volta che la canzone era pronta, la provavamo davanti a un pubblico per vedere se piaceva. In caso affermativo, restava in repertorio.

Dopo la sua uscita dai Beatles, che tipo di rapporti ha avuto con John, Paul e George?
Li ho visti in tre occasioni, le volte in cui mi è capitato di suonare sul loro stesso palco. Sfortunatamente non ci siamo parlati, né lo abbiamo fatto finora ma chissà… forse un giorno Paul e io ci beccheremo.

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