Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 22 gennaio 2012 alle ore 08:13.

My24

È un braccio, è un dirimpetto di mare largo non più di quaranta chilometri quello aperto tra i comuni di Castiglione della Pescaia e Isola del Giglio, ambedue in provincia di Grosseto. E, sempre in tema di corte distanze, la morte di Carlo Fruttero è avvenuta a meno di ventiquattr'ore da una breaking news che non ha fatto in tempo a commentare. Quella manovra a filo di battigia della nave Costa Concordia era pronta per entrare a sirene spiegate nella sua – sua, più che del suo amico Franco Lucentini – Prevalenza del cretino. Ma se lui, Fruttero, avesse potuto intervenire per tempo, avrebbe saputo come organizzare i primi soccorsi linguistici, scongiurando il naufragio definitivo sulle scogliere della retorica. Avrebbe scritto un breve articolo dall'assetto impeccabile, orientato dalla sua vera stella polare che era il senso dell'assurdo e che con le sue ellittiche traiettorie gli consentiva di mettere al riparo la pietà (il dolore) dietro una foschia di scetticismo, l'empatia nella pulsazione di un punto e virgola, il giudizio morale nel refolo dell'aggettivo che non ti aspetteresti mai. Non possiamo sapere che cosa avrebbe scritto, ma può darsi che avrebbe lanciato una cima verso quella parola fuori rotta – l'inchino: avanti tutta, andiamo a fare l'inchino al Comandante! – e si sarebbe lasciato portare. Certo; perché, avido com'era di fatti e anche di pettegolezzi senza fisime sul loro livello, un'unica cosa gli stava a cuore davvero, il linguaggio, per il quale aveva un orecchio assoluto esercitato a cogliere quello che nessuna strumentazione di bordo potrebbe mai registrare; e lui nel mare dei linguaggi navigava in manuale non solo quando ancora frequentava le strade e poteva intercettare ogni momento i segni (verbali, dunque astratti) che fanno La donna della domenica e danno a te che leggi l'illusione della realtà – ma lui sapeva, lo sapeva bene, che erano fantasmi. Fruttero riuscì anche molto più tardi, e da solo, senza più Lucentini, ma di nuovo con la voracità disperata senza la quale non si tocca terra di letteratura, a predare le voci di un mondo nel quale ormai non si trovava più immerso per materiale impossibilità, dandoci ancora una volta un oggi linguistico perfetto con le sue Donne informate sui fatti: è stato appena sei anni fa. Il racconto più bello che scrisse da solo è del 1979 e s'intitola Ti trovo un po' pallida. È il monologo di una donna di nome Gea che fluttua, lei pure, sui luoghi delle cronache di questi giorni (il Giglio non c'è, ma nel discorso compare Giannutri; c'è anche, e spesso, Severino Gazzelloni, ma è un altro discorso). Comincia, quel racconto, con le parole «Io sciagurata», dentro le quali c'è tutto Fruttero, anzi l'essenza di tutti e due Fruttero&Lucentini, se solo a quelle due parole noi gli facciamo cambiare sesso: «Io sciagurato» o, per meglio dire, «l'Io sciagurato». Come il suo amico Lucentini, Carlo Fruttero era un grande lettore dei moralisti classici, che gli piacevano perché erano dei classici pettegoli, capaci per stile di rendere eterna la chiacchiera del proprio tempo: su di loro aveva fatto gli esercizi di pronuncia, e perciò conosceva intimamente il «moi haïssable» di Pascal. La sua amicizia con Lucentini poggiava su questa roccia: l'odio per il pronome io, affiorante in tutti i loro scritti.
E quel miracolo acustico che è la lingua, il gesto linguistico di Fruttero, sta tutto nell'aver saputo rinunciare all'io e alla sua pesantezza, in virtù della finzione – divertentissima, per giunta – di non possederlo dato che si scrive in due. Pur di toglierselo di dosso, quell'io, Fruttero si trasformò in un io donna quando ancora scriveva in coppia, e diventò un'intera sfilata di donne, ciascuna informata sui fatti in prima persona, quando fu costretto a scrivere da solo. Ora che è salpato prendendo il largo, come non fargli (ma senza suonare sirene) un inchino?
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi