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Questo articolo è stato pubblicato il 22 gennaio 2012 alle ore 18:15.

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Bambole di Yoshie NishikawaBambole di Yoshie Nishikawa

Ho da sempre considerato e sostenuto che per una giusta valutazione di un'opera d'arte non sia sufficiente limitare la propria ricerca ai dati storico-esegetici, per quanto illuminante possa essere la critica, ma sia necessario tener conto dell'ambiente entro il quale l'opera è sorta, dei dati psicologici, antropologici, che non possono andare disgiunti da un approccio filosofico-estetico.

La mostra dedicata al rapporto tra la pelle dell'uomo – e soprattutto della donna – e l'opera d'arte mi sembra di grande interesse perché mette in luce quanto possa valere lo stimolo creativo di questa fondamentale struttura del corpo umano nella realizzazione di un'opera artistica, soprattutto di quella pittorica.

Che ognuno «tenga prima di tutto alla propria pelle»; che gli accada di avere «la pelle tesa» per lo spavento, o addirittura che gli venga «la pelle d'oca»: basterebbero questi o tanti altri modi di dire per dimostrare quanto la nostra pelle ci sia cara, anzi indispensabile. Non ci possono essere dubbi circa il valore artistico, fisiologico, antropologico, economico di questa importante struttura umana, quasi che tutti gli altri organi importanti del nostro corpo, senza i quali non potremmo vivere, fossero sottoposti o soggiacessero alla perfida dittatura della nostra cute.

Perché dico perfida? Perché è un dato di fatto che tutto sommato non si sia ben coscienti di quanto la pelle determini la nostra apparenza di fronte al prossimo. «È questione di pelle», sentiamo affermare. E questa non è solo questione di razza, ma anche di altre ragioni non disprezzabili, come la provenienza da una data regione, da una data nazione. Le differenze tra il pallore del Nord, l'abbronzatura del Sud, la pelle appena arrossata di ritorno dalla montagna, sono tutti banali esempi di quanto conti il tipo di epidermide che ci ricopre. E senza che ci sia bisogno di arrivare alle tragiche differenze etniche e ai razzismi ben noti. Ma se qualcuno «non sta nella pelle», pur di conoscere le ingiustizie e i pregiudizi esistenti per le differenze etniche ed epidermiche, bisogna anche constatare che un certo "orgoglio" per la propria pelle esiste ed esisterà sempre, proprio perché più di ogni altro settore corporeo essa è essenziale per una persona.

Quello che tutta questa mostra illustra – ed è giusto che una volta tanto non si dimentichi – è il rapporto dell'arte con la scienza, e viceversa il rapporto della scienza con l'arte. Certo: un'autentica ingerenza della cute nell'opera d'arte si limita a ben pochi casi, come quello tipico, citato, di Michelangelo, dove è proprio la pelle come tale a essere protagonista dell'opera. Mentre le infinite sfumature del l'incarnato, o le anomalie patologiche raffigurate in molti dipinti, non sono che "epidermide", e quindi non si possono considerare come materia prima di un capolavoro. Sono sfumature delle opere. Tuttavia gli esempi della diversità dell'incarnato umano rivelano pur sempre il loro quoziente estetico.

«Amici per la pelle», dunque, con i due curatori di questo volume! Quello che consiglierei loro, per giudicare e stabilire fino a che punto conti davvero il ton (l'incarnato) delle dame nei lavori citati, è di trasformare col computer ogni bell'esempio di epidermide della loro collezione con un ton del tutto diverso: pallido per un incarnato rubensiano, acceso per il pallore di un simbolista, moresco per un Toulouse-Lautrec, bianco latteo per Ladies and Gentlmen di Andy Warhol. Si constaterebbe allora che, «privati della loro pelle» quei volti (del colorito scelto dall'artista), molte delle loro caratteristiche, non solo psicologiche, ma anche estetiche, andrebbero perdute, a dimostrare l'«inderogabilità del colore della propria pelle» nella creazione di tante opere e capolavori dell'arte.

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