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Questo articolo è stato pubblicato il 22 gennaio 2012 alle ore 08:16.


«Voglio soltanto giocare a scacchi», aveva detto una volta, e non scherzava. Per tutta la vita, Bobby Fischer - il genio degli scacchi - ha cercato di essere fedele a questo programma e tutta la sua vita ne è stata la smentita, paradossale. Lui che voleva isolarsi in un mondo a parte, lui che cercava l'elusiva sicurezza di una dimensione protetta, controllabile, ha finito per ritrovarsi proprio al centro della scena. Tragica ironia. Nel bel film di Liz Garbus, Bobby Fischer Against the World, nelle sale da domani, questo paradosso è intuito a intermittenza. Il nocciolo della questione sta tutto in quel contro il mondo. Molto oltre gli scacchi, la parabola di Fischer diventa uno specchio, estremo e sconcertante, della nostra storia recente, una rovina. Il volto, i gesti, di Bobby, la sua intrattabile coerenza, le sue scelte "controtempo", la sua rinuncia (e un coro di voci, per provare a decifrarlo, per riuscire a spiegarlo, inutilmente): straordinario lavoro di ricerca e montaggio, il film della Garbus ricostruisce la vicenda di Fischer per svelarne l'enigma cercando di stare ai fatti, con concretezza. Dall'infanzia solitaria in una Brooklyn pezzente ai primi grandi successi, all'apoteosi nel gelo improbabile di Reykiavik (è il primo scacchista americano a battere i russi, il primo a conquistare il titolo mondiale) la Garbus segue Fischer mettendo insieme reperti, tracce, frammenti, e il risultato è davvero sorprendente, notevolissimo. Lo sfondo è la guerra fredda, gli anni Sessanta, ma niente appare scontato, prevedibile.
Con un uso magistrale di un ricchissimo materiale di repertorio, Liz Garbus ricostruisce la battaglia di Reykiavick contro Spassky in maniera perfetta. In un mondo che sembrava improvvisamente travolto da un'epidemia scaccomane globale, il ragazzo di Brooklyn tiene tutti col fiato sospeso ma quando inizia a giocare non ha rivali. È un trionfo e una beffa, l'ennesimo paradosso, il più spiazzante. L'arci-indivualista ora diventa un simbolo politico, una "pedina" (Only a Pawn in Their game, cantava Dylan). «Gli chiesi di giocare - racconta Kissinger - e lui obbedì»; da bravo americano, da soldatino.
Ma non era un soldatino (e nemmeno un bravo americano, naturalmente). Si sentiva usato; non voleva accettarlo. Già al ritorno a New York è pronto a ripensarsi. La storia di Fischer non avrebbe alcun senso senza questo "dopo" tragico, inquietante. Anni scuri allo sbando, tra abiure e rinunce, colpi di scena, cialtronesche sparate, paranoia. Qui il racconto della Garbus - col suo "coro" di voci troppo sensate - perde il filo e svanisce, si normalizza.
Da quei giorni di settembre (è il '72, siamo alla vigilia della strage di Monaco) la storia di Fischer - e la nostra - cambiano segno. Bobby lascia la scena, clamorosamente. L'America è sgomenta; lui non batte ciglio e tira dritto. Non difenderà mai il titolo mondiale e abbandonerà gli scacchi per almeno vent'anni. Appare, scompare e, poi, quando riappare, lui, l'eroe a stelle e strisce, ormai è l'arci-nemico, l'antiamericano, il grande antisemita (lui che pure era ebreo, e dalla testa ai piedi, suo malgrado). Nel film della Garbus (il coro di voci ora canta all'unisono) questo percorso è soltanto rovina, velenoso rancore, paranoia. La sua decadenza viene inquadrata nella ratio di una diagnosi ovvia, rassicurante. Ma non era così; o non soltanto. Nel suo abisso c'è un mondo, un intreccio di ragioni inesauribili. Avevano voluto farne un simbolo, un pretesto, una bandiera, ma è stata soltanto la sua fuga a renderlo un mito. Liquidarlo come un semplice caso clinico non ha senso. L'aveva detto anche lui, secoli prima: «Non credo nella psicologia; credo soltanto nelle buone mosse».
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Vittorio Giacopini è autore di
Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer, Mondadori, 2008

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