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Questo articolo è stato pubblicato il 24 gennaio 2012 alle ore 10:49.

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Stan Kenton e Thelonious MonkStan Kenton e Thelonious Monk

Sono due le ricorrenze principali che si presentano subito al mondo del jazz in questo 2012 appena cominciato. Si tratta del trentesimo anniversario della scomparsa del pianista e compositore Thelonious Monk, avvenuta il 17 febbraio 1982, e del centenario della nascita del direttore d'orchestra Stan Kenton (19 febbraio 1912). Non si vuole cogliere l'occasione per commemorarli, ma per approfondire tante cose che li riguardano. Mi par già di sentire le proteste che si alzeranno da parte di molti, colleghi e non, ai quali potrà sembrare irriguardoso l'accostamento di due personaggi tanto diversi (anche sul piano del valore, non c'è dubbio): eppure entrambi, sebbene per motivi differenti, meritano di essere ricordati. Qui si vogliono indicare soltanto alcuni spunti che altri, oppure io stesso, vorranno riprendere.

Ho già avuto occasione di notare, per quanto concerne Thelonious Monk, che forse spetta a un festival italiano, l'Umbria Jazz Winter di Orvieto, la palma della prima manifestazione al mondo che abbia celebrato il trentennale. UJW lo ha fatto nel pomeriggio del Capodanno, affidando al trio del pianista inglese Stan Tracey il compito di intepretare per un'ora composizioni monkiane, e subito dopo all'eccellente Lydian Sound Orchestra fondata e diretta da Riccardo Brazzale la rievocazione del famoso concerto tenuto il 28 febbraio 1959 alla Town Hall di New York da Monk, alla testa di una formazione di dieci elementi. Molte altre iniziative - festival, concerti, articoli - dovrebbero seguire.

Continua intanto, qua e là in Italia e altrove, la bella iniziativa di teatro-musica di Stefano Benni con Umberto Petrin al pianoforte intitolata «Misterioso» (Viaggio nel silenzio di Thelonious Monk). Si noti che Misterioso, nome scelto non a caso, è una composizione di Monk, e che il "silenzio" allude agli otto anni, dal 1974 alla morte per infarto, in cui il maestro soggiornò in una stanza della villa di Englewood, New Jersey, di proprietà della baronessa Nica Rothschild, dove egli non compose più nulla né toccò mai il pianoforte pur avendone uno a disposizione.

Oggi l'ascolto di Monk è in aumento. Meno male. Ma per quali motivi bisogna prestare più attenzione a quella tastiera agra e scontrosa, contraddetta in apparenza da una sessantina di composizioni spesso dolci, lente e quasi romantiche? Sarebbe troppo facile rispondere "perché Monk è un genio", quantunque sia vero. Monk, da quando apparve ventenne verso la conclusione degli anni trenta (era nato a Rocky Mount, North Carolina, nel 1917) fino al suo definitivo silenzio, suonò più o meno sempre nello stesso modo. Soltanto in alcune sue registrazioni isolate, in particolare quattro del 1944 sotto il nome di Coleman Hawkins, non si discosta molto dai pianisti del jazz "classico", semplici e lineari. Sembra chiaro che l'abbia fatto apposta per non stridere a contatto con gli altri.

Charlie Parker non aveva usato il medesimo riguardo, un paio d'anni prima, all'orchestra di Jay McShann nella quale era entrato come un corpo estraneo. I suoi assoli «sono suonati domani», gli fa dire Julio Cortazar ne «Il Persecutore» con una straordinaria licenza poetica. Monk all'epoca è sullo stesso piano. In più, esprime un suo mondo musicale privato e non gli importa nulla che sia ascoltato e capito dai comuni mortali. L'enigma musicale di Monk in fondo è tutto qui, ma non è poco. Anche quando si serve di temi altrui, magari celebri come «Smoke Gets In Your Eyes», ne destruttura le forme per riorganizzarle nel modo più lontano possibile da ciò che sia già noto. Significativa è pure la risposta data a un tale che gli chiese quali fossero i pianisti che lo avevano influenzato. Disse «Io, naturalmente» e non era una vanteria. Era una prova di solitudine, di introspezione e di silenzio.

Mi accorgo che l'entusiasmo per Thelonious Monk mi ha preso la mano, e quindi è meglio che io rimandi a un altro (prossimo) articolo ciò che ritengo si deva scrivere di Stan Kenton, del quale da parecchio tempo si parla piuttosto male. Qui mi basti accennare a un solo punto, siccome ho avuto il privilegio di conoscerlo e di frequentarlo a lungo. Kenton era una persona affatto diversa dagli atteggiamenti da mangiafuoco attribuiti a lui, ma in realtà inventati dall'ufficio stampa della sua casa discografica (la Capitol, per non far nomi). In particolare, la celebre frase dei primi anni cinquanta, per cui la musica del futuro concepita secondo i canoni kentoniani «avrebbe fatto apparire Bach, Beethoven e tutti quei ragazzi (sic) terribilmente deboli» non gli è mai appartenuta per niente. Tanto per cominciare a essere chiari.

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