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Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2012 alle ore 09:56.

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Un titolo cui si vorrebbe aggiungere un punto interrogativo. E un sospiro. Come una manciata di dubbi. «Perché scrivere», invece, è un titolo affermativo. Una dichiarazione di complicità e provocazione tra l'autrice inglese Zadie Smith e coloro che, nei secoli, hanno sentito scorrere il più pungente dei punti di domanda tra vene, pennino e tastiera. Non gli scribacchini, orgogliosi, secondo i versi insofferenti di Pope, «di una distesa di righe inconsistenti».

Ma gli scrittori, quelli bravi, di talento, grandi o «ideali». Legittimi alchimisti di lettere e punteggiatura, nei loro accoppiamenti, talvolta impudichi, con pensieri, opere e missioni d'arte. Quei traditori di se stessi che lasciano naufragare il «sogno del romanzo perfetto» imbarcando il proprio io fluido, ingombrante, eppure vitale. Che fanno dello scrivere una scienza inesatta, in cui tecnica e sistemi sottostanno alla personalissima legge dell' «esprimere con precisione il proprio modo di essere nel mondo».

Un modo inutile, è il sospetto. Qualcosa che, in un'epoca di intrattenimento audiovisivo globale e ipertrofia di distrazioni accessoriate, non può neppure ambire alle stigmate di un nobile tormento: «Un senso di inutilità. Di ridondanza. Di assurdità. Non proprio di disperazione: disperazione è esattamente il tipo di parola che gli scrittori usano nelle conferenze; se non altro ha una certa grandiosità».

Due saggi, dunque, riuniti per la prima volta in un unico volume per cercare il senso perdente o perduto della letteratura nella società contemporanea. Il primo, «Perché scrivere», è il testo di una lectio magistralis tenuta in occasione della quinta edizione del Premio Gregor von Rezzori nel giugno 2011.

Un percorso tra presunte serenità letterarie degli autori del passato e frustrazioni contemporanee di un'arte sempre più simile ad artigianato, a una bottega di parole perfettamente assemblate dentro a una realtà di industriali produzioni di non senso, tali per cui lo stesso Philip Roth -grande scrittore dai grandi numeri- guarda al futuro prossimo della lettura come a «una specie di culto» per pochi e devoti iniziati.

Ed è George Orwell ad accompagnarci per motivi al senso dello scrivere come attività elitaria e coinvolgente al tempo stesso, in quanto «fare ciò che si è», mostrando «le cose come stanno», per un'autodeterminazione ed espressione di sé che ha un ruolo simbolico in una cultura omologante e banalizzante. Quel «Fallimento riuscito», titolo del secondo saggio del 2007, che, in un delicato ecosistema di scrittori, lettori e critici ideali, fa delle delusioni e imperfezioni dello scrivere secondo personalità ed estetica una questione di etica o «espansione del cuore».

«Perché scrivere» di Zadie Smith
Minimum fax
pag. 75 euro 5,90

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