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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2012 alle ore 08:13.

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Una nuova corsa all'Artico è partita. Cento anni dopo la conquista del polo Nord al posto degli esploratori gareggiano compagnie petrolifere e armatori. Il traguardo non è la gloria, ma il profitto. Non li fermano le immense distanze, l'oscurità, il gelo, gli iceberg vaganti, le onde che si congelano sulle superfici galleggianti rendendole scivolose, fragili, mutandone il baricentro e ribaltandole. Senza troppi proclami, per il più remoto oceano della terra è già iniziata una nuova era, quella dello sfruttamento. È evidente a chi si è recato nei giorni scorsi a Tromsø, un'isola incastonata tra i fiordi settentrionali della Norvegia dove sotto un'eccezionale susseguirsi di aurore boreali si è tenuta la più importante conferenza per discutere del prossimo futuro dell'Artico: «Arctic frontiers». L'antica base di partenza di celebri spedizioni polari, tra cui quella che vide Roald Amundsen morire nel tentativo di salvare Umberto Nobile, è diventato il luogo di appassionato confronto tra scienziati, manager, politici e rappresentanti delle popolazioni indigene e delle organizzazioni ambientaliste di Russia, Canada, Stati Uniti, Danimarca, Svezia, Norvegia. Questa cittadina dell'estremo nord, dove solo 150 anni fa terminò la spedizione della Fram che permise a Fridtjorf Nansen di dedurre che sotto la calotta di ghiaccio non vi era terra, ma acqua, è ora la porta d'accesso al business dell'Artico.
«Negli ultimi due anni c'è stato un crescente interesse per le risorse del grande Nord – spiega Salve Dahle, ideatore del convegno – interesse rafforzato dal fatto che il prezzo dei combustibili fossili è salito e che il ghiaccio si sta sciogliendo molto più velocemente del previsto». «Alle estreme latitudini il riscaldamento climatico è doppio, sparendo la neve viene riflessa solo il 5% dell'energia solare, invece dell'85-95%» osserva Lars Otto Reiersen, uno dei responsabili dell'«Artic monitor assessment program». Così la calotta di ghiaccio si sta squagliando rapidamente, rendendo più accessibili le immense ricchezze seppellite sul fondo all'oceano. L'United States Geological Survey ha stimato che qui siano conservate il 30% delle rimanenti risorse globali di gas e il 13% di quelle di petrolio.
Non solo. La Cina è oggi molto più vicina all'Europa e all'America: i leggendari e proibitivi passaggi a Nord Est e a Nord Ovest sono ormai transitabili e, seppure scortate da potenti rompighiaccio, le prime spedizioni commerciali sono già partite. Se Canada e Russia vogliono rivendicare queste rotte settentrionali come acque territoriali interne, c'è chi già pensa di passare ancora più a Nord, tagliando verso il Polo. Pechino ha avviato la costruzione del suo primo rompighiaccio e Mosca sta raddoppiando la sua flotta a propulsione nucleare. Mentre la Groenlandia, dove quest'anno si è sciolta una superficie di ghiaccio equivalente a quella che, spessa due metri, ricoprirebbe tutta l'Australia, scommette sull'effetto serra per avere presto accesso alle preziose riserve di minerali sepolte sotto i ghiacci perenni e per potersi così permettere l'indipendenza. Il riscaldamento climatico per alcuni sta diventando un affare. Ed è possibile che altri governi nordici abbiano deciso che i vantaggi nel breve termine siano più appetitosi dei disastri che seguiranno.
La nuova corsa all'Artico non implica tuttavia lo spartirsi nuovi territori, ma ancora una volta il dover affrontare l'ambiente più ostile del pianeta. Tutto infatti è già stato deciso dalla Convenzione Onu sul diritto del mare, entrata in vigore nel 1994. Un trattato che permette agli stati costieri di rivendicare in base a criteri scientifici ampie porzioni di crosta continentale sommersa. Oslo ha già chiesto e ottenuto dalla commissione valutatrice preposta vasti territori nel ricco mare di Barents, di Norvegia e nel bacino occidentale di Nansen (e dato diverse licenze di esplorazione, anche all'Eni); il Canada si appresta a formulare la sua domanda e la Russia ha sottoposto unarichiesta che comprende circa metà dell'Artico. Costruire piattaforme petrolifere nell'oceano glaciale è una grande sfida per le società di ingegneria: devono poter schivare gli iceberg, resistere alla deriva dei ghiacci, permettere agli uomini di lavorare per lunghi mesi d'oscurità a temperature estreme. Si può fare, dicono, ma ritengono più sicuri, anche se più futuribili, impianti posizionati direttamente sul fondo dell'oceano capaci di comprimere il gas e avviarlo al continente tramite gasdotti sottomarini.
I ricercatori osservano che rischi di un disastro ambientale in questi luoghi estremi sono molto più alti, i tempi per un'operazione di salvataggio più lunghi, soprattutto se si deve operare sotto il mare gelato (non si può né bruciare il petrolio né contenerlo ed estrarlo con metodi meccanici, non resta che aspettare primavera), senza considerare che il ritmo a cui il petrolio viene degradato a basse temperature è lentissimo. I Paesi dell'Artico si sono riuniti per stabilire linee guida per lo sfruttamento "sostenibile" delle risorse off-shore, che loro stessi definiscono molto stringenti. Ma ciò che preoccupa gli ambientalisti, russi soprattutto, è che non sia previsto un organismo di controllo internazionale per verificare periodicamente che le norme siano applicate e rispettate. Eppure il possibile danno all'ecosistema non è la conseguenza più temuta: «L'ecosistema artico fragile è quello terrestre, con pochissime specie che vivono al limite della sopravvivenza, quello marino è più resistente, perché al polo c'è molto nutrimento e grande biodiversità», spiega Dahle, che è anche direttore dell'High North research centre for climate and the environment (Fram Centre) di Tromsø.