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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 15:18.

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Ho comprato due settimane fa su internet un libro che è abbastanza ai margini delle mie letture. Si intitola Shadowings ed è stato scritto da Lafcadio Hearn, un autore inglese che ha vissuto in parte in Giappone alla fine del diciannovesimo secolo. A parte il titolo evocativo, non è il mio settore, per così dire, e ci ero arrivato per caso, leggendo una meravigliosa graphic novel di Natsuo Sekikawa e Jiro Taniguchi sull'epoca Meiji (Ai tempi di Bocchan). Hearn nacque sull'isola greca di Leucade da padre irlandese e madre greca, era nipote di uno dei pittori della scuola di Barbizon, visse a Dublino e negli Stati Uniti, sposò (cosa illegale per l'epoca) una donna afroamericana, dopo varie vicende finì in Giappone dove insegnò inglese a una scuola di Matsue e in seguito all'Università di Tokyo, si sposò con la figlia di un samurai, prese il nome di Koizumi Yakumo, e pubblicò un certo numero di testi sul suo paese di adozione, tra cui per l'appunto Shadowings (tradotto in italiano come Ombre giapponesi).

Bene, attratto da questo itinerario singolare ordino il libro che trovo per pochi dollari su uno dei soliti siti, lo ricevo e comincio a leggerlo. Ma mi fermo dopo una pagina, che dico, dopo poche righe. Troppi refusi, troppe parole strane, troppe curiose sequenze tipografiche. Si capiva, certo, che non era un vecchio esemplare, o una ristampa anastatica. In effetti si tratta di una stampa on-demand da una scansione con riconoscimento dei caratteri (Ocr). Il libro originale è stato scansionato, sottoposto a riconoscimento del testo, e stampato dal file così generato. Il risvolto spiega nei dettagli la procedura: a titolo di scuse per gli inevitabili refusi. I numeri contano qualcosa, val la pena di fare due conti: se il riconoscimento dei caratteri è accurato al 99 per cento, e in una pagina stampata ci sono 3.500 caratteri, questo vuol dire che avrete in media 35 refusi per pagina, 3.500 per un libro di cento pagine. Orbene, a me capita di prendere la matita rossa e scrivere una lettera all'autore, non di rimprovero, ma in sincero spirito di aiuto, quando trovo un refuso nell'opera di un collega. (Essere maniacale sui refusi altrui purtroppo non protegge dalla cecità nei confronti dei propri. Scrivetemi pure.) Ma anche per un lettore meno ossessivo tremilacinquecento refusi sono un pranzo indigesto che nella fattispecie impedisce di assaporare le atmosfere rarefatte di un Giappone sull'orlo della sua fine programmata e inquieto di fronte alla possente rinascita.

Come ricorda Gino Roncaglia (in altra sede, ndr), il print on demand, l'Ocr, sono tecnologie di transizione. Anch'esse situate tra due epoche, quella del libro stampato, di cui resta solo una traccia grafica, e quella del libro digitale, per il quale la stampa è un epifenomeno. Il mio primo libro, pubblicato nel 1990, era stato composto su una linotype. Andai in treno a Vicenza a ritirare le bozze, che corressi in una notte un po' allucinata in una stanza d'albergo. Il tipografo (il tipografo, non l'editore) mi spiegò per filo e per segno quello che potevo o non potevo fare. In particolare si doveva prestare attenzione a non generare orfani o vedove, perché questo avrebbe comportato la necessità di rifondere il piombo di pagine e pagine, quantomeno fino alla fine del capitolo dove restavano un po' di righe vuote di sicurezza. Più tardi cercai invano di ottenere una delle pesanti lastre; mi dispiace ancora oggi di non esservi riuscito, e devo accontentarmi di sentire il rilievo del carattere a stampa quando passo la mano sul foglio. Molte delle mie ultime pubblicazioni sono solo online, e in alcuni casi di autopubblicazione (un librino scritto con Achille Varzi sui voti, per esempio) posso almeno in teoria rimettere mano al testo e non solo correggerlo ma anche cambiarlo indefinitamente.

Correggere le bozze è una pratica dai molti vincoli che dipendono dallo stato della tecnologia di volta in volta disponibile. In altri tempi era un'arte. Romano Barboro, insegnante di tipografia, non era preoccupato dai refusi quanto dai canali: serie crudelissime di spazi bianchi che si allineano da una riga all'altra tagliando la pagina, colpendo l'occhio come fulmini diagonali o, peggio ancora, verticali. Una correzione tardiva di un refuso poteva cambiare completamente l'aspetto globale della pagina, scavare canali là dove il tipografo era riuscito a distribuire con grazia i pesi del nero delle lettere.

La mente di un correttore di bozze, o di un lettore ossessivo, deve rispettare molti vincoli. Non tutti gli errori tipografici sono visibili, specialmente se si trvoano nel cnetro dlele praole. Quando faccio correggere il mio francese per un documento importante devo richiedere a chi legge di non essere indulgente («che termine strano, ma sarà filosofia, quindi lasciamolo»). Una ricerca in corso parrebbe mostrare che in Francia le vittime principali dell'errore ortografico sono paradossalmente i custodi del tempio, i maestri di scuola elementare: non è vero che sbagliando s'impara, e a guardare continuamente errori ortografici questi finiscono con il depositare una traccia da qualche parte nella vostra mente. Vale allora la pena di lasciar sempre in funzione la correzione automatica mentre si scrive, e non vedere mai i propri errori sullo schermo sottolineati in rosso.

Parlando di sistemi automatici, ne approfitto per correggere una cosa che ho scritto su Wikipedia di recente e che riguarda a sua volta la correzione. Non è un algoritmo che ritraccia le modifiche non accompagnate da commento, ma un vero e proprio operatore umano (in questo caso, Fantomas). Wikipedia, dopotutto, mostra in maniera non sorprendente che la qualità dipende dalle persone. Uno degli effetti secondari di un'enciclopedia libera è di aver creato implicitamente una grande scuola di curatori editoriali. Il che, mi sia permesso di dirlo, è anche un contributo alla democrazia. Ma si deve fare attenzione: deve restare una traccia delle correzioni (la 'discussione' di Wikipedia). Correggere è un'arte, ma soprattutto una responsabilità.

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