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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 08:17.

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Ma davvero il mondo (e l'Italia) del Terzo millennio sono così brutti, senza luce e speranza, come li dipinge questa ultima fatica letteraria di Giorgio Bocca? Viene da chiederselo, leggendo le pagine aspre di questo pamphlet consegnato all'editore qualche mese prima della morte, avvenuta a Milano il giorno di Natale 2011, a 91 anni. Nulla, o quasi si salva dal pessimismo di un grande osservatore, che nel corso degli anni – come del resto accade a molti che vissero al calore di grandi e mitiche passioni – ha assistito al progressivo deperimento dei valori e delle utopie che mossero la lotta partigiana.
Ed ecco, sezionati in una specie di galleria degli orrori, le insidie dello sviluppo scientifico «che può concludersi solo con la distruzione del mondo e della specie come dimostrano gli incidenti nei quali si è già incorsi con la liberazione dell'energia atomica»; la moda di salutarsi augurandosi «buon lavoro», spia della nuova mania di vedere nel lavoro, un tempo maledizione divina, «l'unica ragione di vivere»; la schiavitù del computer, «una droga, come le altre che ci danno il sollievo della dipendenza, come l'astrologia, il fumo, l'alcol»; l'imbarbarimento della lingua italiana e la «monotonia affliggente del lessico dei media»; la corruzione dilagante al l'insegna del nuovo comandamento «rubo dunque sono», con conseguente mutazione ontologica del furto che «non è più una vergogna o un disonore ma un affare che rientra nella normalità»; la morte del giornalismo ucciso dal finto scandalismo rosa; l'eclissi della democrazia, soppiantata da un «autoritarismo morbido». E naturalmente l'agonia della tv ormai apprezzata da un pubblico «soprattutto di casalinghe, di madri, cioè di persone fondamentali per l'educazione dei figli, letteralmente possedute dal cattivo gusto e da cattivi spettacoli della televisione, in cui dominano incontrastati i film della violenza».
Altrettanta sfiducia – e qui a dire il vero viste le ultimissime vicende si stenta a evocare il catastrofismo preconcetto – viene riservata all'economia e alla finanza. Traspare tutta la diffidenza del vecchio montanaro dinanzi all'illusione della ricchezza virtuale quando si legge che «la crisi economica dura perché fatica a morire il liberismo caotico e ingannevole da cui è nata: tutti sanno che la più modesta amministrazione familiare è fatta di una precisa pianificazione degli introiti e delle spese, del risparmio, della giusta attenzione ai debiti e al loro peso, tutti sanno che non si può fare il passo più lungo della gamba».
Essendo Bocca piemontese, non poteva mancare il capitolo dedicato alla Fiat, con ruvidi giudizi su Marchionne al quale viene attribuito il disegno di «sottomettere l'intera società alla ricetta dei più ricchi e dei più forti, dei padroni, mettere tutti al servizio della produzione, tagliare le pause, ostacolare il lavoro sindacale, soffocare la lotta di classe con la scusa che è una cosa del passato». E quanto alla ricorrente tentazione di de-italianizzare l'azienda, si tratta di «una pretesa inaccettabile da un Paese civile: non si può compiere la prima accumulazione del capitale, la prima crescita produttiva e tecnica usando le risorse umane locali e poi trasferirsi dove al capitale conviene».
La prosa di Bocca è tagliente e appassionata, i giudizi schietti e acuti, uno spiraglio di luce nel finale si intravede (l'Italia che dà il meglio nei momenti di suprema difficoltà) ma separare nettamente il bene dal male è un'operazione impervia, e i percorsi della vita e della storia sono imprevedibili, hanno sempre in serbo una sorpresa capace di smentire le predestinazioni e i meccanicismi di qualunque tipo. «La signora Moratti della famiglia miliardaria», annota sconsolato Bocca, «può mettere in campo per le elezioni amministrative di Milano venti milioni di euro, più di tutti gli altri candidati messi insieme». Sì, ma poi a Milano ha vinto Pisapia.
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Giorgio Bocca, Grazie no, Feltrinelli, Milano, pagg. 112, € 10,00

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