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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2012 alle ore 14:28.

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Vittorio (s) e Paolo Taviani. Foto AfpVittorio (s) e Paolo Taviani. Foto Afp

«Se avessimo conosciuto la letteratura, saremmo stati uomini diversi». Così ha esordito in conferenza stampa Salvatore Striano, protagonista della pellicola "Cesare deve morire" di Paolo e Vittorio Taviani, presentata ieri in concorso alla 62esima edizione del festival internazionale del cinema di Berlino.

Rafforzati dagli applausi che la critica ha riservato al film a fine proiezione, i fratelli Taviani, Striano e il regista teatrale Fabio Cavalli, che ha diretto gli attori in molte piéce dentro la struttura di massima sicurezza, hanno creato un'atmosfera giocosa e allegra, nonostante il tema scottante. La pellicola riprende infatti un gruppo di detenuti del carcere di Rebibbia durante le prove del dramma scespiriano "Giulio Cesare", ma le parole pronunciate dalle loro bocche risultano attualissime, come se raccontassero i percorsi malavitosi che li hanno portati alla pena. Una bella docufiction, peccato per quelle digressioni sulla vita privata dei carcerati: bastavano le parole di Shakespeare.

Vittorio in conferenza stampa ha raccontato la genesi del film, creata dalla visione degli spettacoli teatrali di Cavalli in carcere. «Abbiamo visto questi detenuti di massima sicurezza in carcere per mafia, camorra, ‘ndragheta. Recitavano l'inferno di Dante dal loro inferno». Così è iniziata l'avventura, cui è seguito un sincero rapporto di affetto tra i registi e i detenuti.
Un'esperienza totalizzante che Paolo giustifica con il legame dei due fratelli a Shakespeare: «E' stato un padre, figlio, fratello. Essendo ora noi stessi padri, ci siamo permessi di trattarlo male. L'abbiamo smembrato, decostruito e ricostruito. Ma credo che sarebbe stato felice di vedere rappresentato in un carcere il suo Giulio Cesare».

Troppo semplicistica invece la pellicola di Frédéric Videau, "Coming home", che cerca di entrare nei meccanismi del legame tra il sequestratore e la vittima, in questo caso una bambina segregata per anni. Il regista mostra la "normalità" di un mostro, ma si ha un ritorno troppo superficiale per una storia così scabrosa.

Altro film in concorso ieri è stato "Barbara" di Christian Petzold che narra la storia di una dottoressa della DDR in fuga verso l'Occidente. E' piaciuto molto ai berlinesi che hanno riso di luoghi comuni ai noi però estranei. Oggi infine è il turno del regista di culto Brillante Mendoza: il suo "Captive" si infila nella maglie del terrorismo raccontando il rapimento di una dozzina di turisti nelle filippine da parte del gruppo estremista musulmano Abu Sayyaf. Protagonista della pellicola di Mendoza è Isabelle Huppert.

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