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Questo articolo è stato pubblicato il 14 febbraio 2012 alle ore 16:57.

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«Kisses on the bottom» per Paul McCartney che si dà allo swing. Nella foto il cantante inglese durante l'esibizione ai Grammy Awards a Los Angeles (Reuters)«Kisses on the bottom» per Paul McCartney che si dà allo swing. Nella foto il cantante inglese durante l'esibizione ai Grammy Awards a Los Angeles (Reuters)

Di discettazioni su quello che probabilmente sarebbe diventato Paul McCartney se non avesse mai incontrato John Lennon sono pieni i libri di storia della musica del Novecento. «Kisses on the bottom», sedicesimo album solista del bassista dei Beatles che arriva ormai a cinque anni dal precedente «Memory almost full», mostra invece quello che sarebbe stato Macca se fosse riuscito ad anticipare di una generazione la propria nascita: dodici standard confidenziali da perfetto crooner ripresi dal grande songbook americano, più due sue composizioni comunque «in stile».

Realizzato con l'apporto del produttore pluripremiato ai Grammy Awards (oltre che vecchia conoscenza di mostri sacri del calibro di Miles Davis) Tommy LiPuma, della tigre del piano swing Diana Krall e la sua band e in più con la partecipazione di artisti del calibro di Eric Clapton e Stevie Wonder, il nuovo album di McCartney è un viaggio nelle più profonde radici delle composizioni americane per eccellenza che, in più di un caso, il giovane Paul ebbe modo di ascoltare per la prima volta eseguite al pianoforte da suo padre. Che, per intenderci, fu il musicista dilettante più influente della storia del rock.

Gli inediti. Essendo soprattutto un disco di cover, il modo migliore per analizzarlo è partire dai pochi pezzi originali che contiene. «My Valentine», primo singolo, è una ballad sofisticata che contrappone una strofa drammatica a un ritornello liberatorio, il tutto tenuto insieme da un Clapton che sulla chitarra acustica lavora di sottrazione. La melodia è comunque puro McCartney Style. A differenza di «Only our hearts» che non avrebbe sfigurato nel repertorio di Nat King Cole e si impreziosisce del sublime solo di armonica di Stevie Wonder. Completa il quadro «Baby's request», pregevole adattamento del brano scritto ai tempi dei Wings disponibile ora come extra track nell'edizione deluxe da sedici pezzi insieme con «My one and only love» già cara alla buonanima di Frank Sinatra.

Comanda Diana. Per il resto, un disco del genere – swingante e intimo, divertito e divertente, molto ben orchestrato, in una parola: sofisticato - te lo aspetteresti più nella discografia di Diana Krall che in quella dell'autore di «Silly love songs». La talentuosa jazz-woman, portata da mister LiPuma alla corte di Sir Paul, tiene in mano l'intero lavoro, accelerando e rallentando con garbo pezzo dopo pezzo. Gli echi beatlesiani ci sono, ma non certo a portata di mano: difficile pensare che la poetica di «Bye bye blackbird» non abbia influenzato, fosse pure a un livello inconscio, la ballad folk del White Album dedicata a tanto nobile uccello, così come la spumeggiante «I'm gonna sit right down and write myself a letter» che apre il disco (e che, con un verso, dà all'album questo titolo piuttosto fraintendibile) riporta alla mente «I'm gonna sit right down and cry» che figurava nel repertorio live dei Fab degli esordi.

Due primati. Gli appassionati di statistiche beatlesiane non potranno fare a meno di registrare due dati. Da cinquant'anni a questa parte, questo è sicuramente il disco di McCartney in cui McCartney suona meno: giusto qualche accordo di chitarra in due pezzi. Sir Macca fa il modesto: standard jazzy troppo difficili da suonare, a detta sua, per un musicista di formazione rock. In più, grazie alla maestria di LiPuma, «Kisses on the bottom» è il disco in cui McCartney si è divertito di più dai tempi dei Beatles. È lui in persona a dirlo e - checché possano pensarne i fan più integralisti - si vede. Questo qui è un disco di McCartney, ma non è affatto un disco alla McCartney.
(F.P.)


Paul McCartney

«Kisses on the bottom»
Hear Music/Universal

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