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Questo articolo è stato pubblicato il 19 febbraio 2012 alle ore 15:42.
Ancora lui, Ai Weiwei, l'artista più controverso e famoso della Cina neocomunista. Quello che è stato in carcere per opposizione al regime ed è ancora in libertà vigilata, colui che ha denunciato, nel suo Semi di girasole alla Tate Modern del 2010, le condizioni di lavoro a cui è sottoposto il suo popolo, che nel 2008 ha abiurato alla collaborazione con le archistar Herzog e De Meuron per lo stadio olimpico a Pechino e che, nel 2007, è stato protagonista indiscusso dell'ultima Documenta di Kassel.
Molti hanno visto nel suo modo di reagire allo stile cinese riguardo ai diritti umani un modo facile per attirare l'attenzione. Molti pensano che sia così scaltro da avere espresso il suo dissenso sapendo che un Paese emergente ha bisogno di dimostrarsi aperto alla critica: forse verrà per questo favorito dall'ultimo piano decennale della Repubblica Popolare, che ha stanziato enormi somme per dimostrare la supremazia culturale della Cina su tutti noi. L'oculato assorbimento del dissenso è una tecnica che funzionò benissimo contro l'Europa da parte degli Stati Uniti, che utilizzarono uomini di sinistra come il critico Clement Greenberg o il pittore Jackson Pollock comperandoli o anche solo sfruttandone la fama.
Chi ha lavorato in quella specie di azienda dove si produce arte, design, architettura e anche letteratura, che Ai Weiwei ha messo in piedi negli anni dopo il suo definitivo ritorno in patria, scommette che ci sia qualcosa di volontario nell'utilizzare, a sua volta, tutti i vantaggi – sia in termini di fama che di denaro – riservati a chi sa recitare il ruolo di vittima. E se quest'uomo massiccio di 54 anni non fosse uno scalatore del successo, ma uno stratega politico che, a modo suo, intende ripulire il suo Paese dalla sua attuale cattiva gestione?
Cofondatore del gruppo artistico Stars negli anni Settanta, si è spostato a New York nel 1981 dove fu parte di una comunità di esiliati. Il suo attivismo, paradossalmente, fu proprio ciò che gli diede il passaporto di ritorno: per il regime è stato meglio richiamarlo in patria che sopportare la sua voce oltreconfine.
Un giudizio sulla sua buona fede (o della cattiva fede del governo) può venire solo dalla disamina delle sue opere e dei suoi scritti. La prima è resa possibile da una mostra antologica non memorabile nell'allestimento, perché i locali sono troppo piccoli e perché l'artista non può uscire dal suo Paese e deve lasciar montare ad altri le esposizioni; il prestigioso spazio di Stoccolma Magasin3, grazie alla curatrice Tessa Praun che lavora alla mostra dal 2010, presenta comunque una rassegna in cui si vede un po' di tutto quello che ha fatto come artista, incluso un cumulo di quei semi di girasole in ceramica, fatti a mano da centinaia di artigiani, che riempirono la sala delle turbine alla Tate Modern e che vennero accusati di provocare danni fisici ai visitatori. Forse era vero che ci si scivolava facilmente, ma era anche imponente il tipo di accusa implicita in quel raccolto: la gente in Cina lavora ancora manualmente, tantissimo, usando le proprie mani veloci per ogni genere di manufatto. Qui, nella fattispecie, vediamo oggetti più piccoli di mandorle, dipinti uno a uno con striature blu. E ancora oggi, questi lavori vengono svolti spesso da minorenni. Tutte le opere esposte hanno una punta polemica sia verso il presente, sia verso la passata politica culturale che spinse Mao a cercare di cancellare ogni segno della cultura tradizionale: Ai Weiwei li recupera tutti, dal ricamo alla manifattura di sedie.
L'impegno dell'artista è dimostrato anche dalla sezione digitale dell'esposizione, in cui si può accedere a eventi che hanno luogo in altre sedi a Stoccolma, attraverso Twitter (in cinese anche una stringa di pochi ideogrammi può raccontare molte cose) e in vari microblog, ambiti di libertà e di discussione. La curatrice cerca di dimostrare come non ci sia contraddizione tra le sue opere oggettuali e quelle concepite per l'infosfera, centrate in entrambi i casi sulla battaglia per un nuovo statuto dell'individuo. Per l'occasione si sono coalizzati enti quali il prestigioso Moderna Museet, il Goethe Institut, la Culture Without Borders Foundation.
Ciascuno potrà ulteriormente giudicare quanto sia onesto e addirittura eroico, o quanto invece appaia strumentale l'atteggiamento del poliedrico artista-architetto-scrittore, leggendo le pagine del blog che aprì nel 2006 e che venne censurato e chiuso nel 2009, tradotto su carta dal Mit di Boston nel 2011. Ora la Johan & Levi lo presenta tempestivamente in italiano, sapendo che non si tratta di un libercolo interno al mondo dell'arte e chiuso, quindi, nelle sue faccenduole, ma di una testimonianza che proviene dal luogo che ci dominerà e che sta vivendo le doglie, gli spasmi, le contrazioni di chi deve partorire un impero.
Leggiamo per esempio, in un Paese dominato dalla politica del figlio unico e quindi sensibilissimo alla mortalità infantile: «bambini intossicati dalla melamina, bambini malati di AIDS a Henan, bambini tra i mattoni di Shanxi, bambini uccisi dal terremoto: la vostra disgrazia è la maledizione più efficace sulla nostra nazione, qualcosa di cui i suo volto non potrà mai disfarsi, un marchio di vergogna che tragicamente condanna il destino di questa razza».
Sarà anche furbo, ma Ai Wewei sembra colato nello stampo di Andy Warhol: lavoratore indefesso, ottimo conoscitore dei media, cinico quanto basta in un mondo cane, capace di farsi ascoltare e forse persino credere. Qualsiasi cosa se ne pensi, è un notevole ambasciatore di quali buchi debba rammendare la Cina prima di dirsi a posto con la coscienza.
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