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Questo articolo è stato pubblicato il 19 febbraio 2012 alle ore 08:15.

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di Elisabetta Rasy
Il più autorevole dei suoi estimatori italiani, Agostino Lombardo, scrisse che Margaret Laurence aveva fatto compiere alla letteratura canadese del Novecento la svolta che Melville e Hawthorne avevano prodotto in quella americana dell'Ottocento. In patria molti la associano al più anziano Faulkner e soprattutto è dai suoi romanzi che fanno nascere autrici come Margaret Atwood e Alice Munro. Come nelle storie di quest'ultima, è sulla vita quotidiana in tutte le sue manifestazioni e sfaccettature che Laurence costruisce la propria narrativa, disegnando con un realismo minuzioso e lenticolare gli interni domestici e gli ambienti naturali, le povere case tra i campi o sepolte dalla neve, le pieghe più segrete del paesaggio umano e quelle più devastanti della scena sociale. Negli anni Novanta le edizioni della Tartaruga avevano proposto alcuni suoi romanzi sulla scia dell'interesse per la letteratura femminile, ma troppo tardi rispetto all'euforia delle prime riscoperte e troppo presto rispetto al grande successo dei canadesi in Italia (Munro, Mordecai Richler) perché questa prolifica autrice potesse essere davvero apprezzata. Ora la piccola e combattiva casa editrice romana Nutrimenti la ripropone pubblicando, nella buona traduzione di Chiara Vatteroni, L'angelo di pietra del 1964, che è il primo capitolo dell'opera più importante del suo corpo narrativo, tutto ambientato nella immaginaria cittadina-universo di Manawaka: cinque storie di cinque donne memorabili, attraverso la cui voce quattro generazioni di dura vita canadese sono illuminate da una luce pietosa quanto cruda. Hagar, la protagonista, non è tenera né con se stessa né con gli altri. Dalla lontananza dei suoi testardi novant'anni ricorda le tempeste di neve e di passione che ha attraversato, la sua difficile maternità, il padre inflessibile che ha abbandonato per sposare un rozzo agricoltore di cui tutto disprezzava salvo la vicinanza notturna, a sua volta abbandonato per cercare una vita migliore. Ma, racconta Hagar mentre lotta in nome dell'agilità del cuore contro la decadenza del corpo e contro parenti ostili, medici insensibili e goffi reverendi , la vita migliore non esiste: la vita è buona nella sua tragicità perché è vita e perché, malgrado l'infinita incomprensione che separa gli esseri umani, l'amore, per qualche misteriosa strada, la percorre.
Anche la vita di Margaret Laurence è stata una vita dura e girovaga. Nata nel 1926 nella provincia del Manitoba, orfana precocemente della madre, si è dedicata presto alla scrittura senza mai abbandonarla quando, dopo il matrimonio, ha viaggiato per l'Europa e soprattutto per l'Africa al seguito del marito ingegnere. Tornata definitivamente in patria, nel 1972, divorziata e con due figli, prima di essere considerata con premi e riconoscimenti istituzionali una first lady della narrativa nazionale si è battuta per molte cause: contro la censura e per il riconoscimento della letteratura canadese, per l'ambiente, per la pace. È morta suicida nel 1987 dopo aver saputo di essere malata di cancro e aver deciso di voler risparmiare, a se stessa e ai suoi familiari, il cammino doloroso della malattia. Una decisione dura, come quelle che in L'angelo di pietra prende Hagar: diversa dalle meno corporali figure della Munro, Hagar è infatti l'eroina di una femminilità ispida e guerriera, brusca e vitale, un vero angelo di pietra che, irriducibilmente, non rinuncia a battere le ali.
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Margaret Laurence, L'angelo di pietra, traduzione di Chiara Vatteroni, Nutrimenti, Roma, pagg. 302, € 18,00

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