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Questo articolo è stato pubblicato il 19 febbraio 2012 alle ore 08:15.

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C'è, nel mappamondo dei Paesi che non esistono, il Wessex di Thomas Hardy e c'è la contea di Yoknapatawpha di William Faulkner. Regioni inventate che però somigliano – la gente, le case, il paesaggio – ai luoghi d'origine dei loro rispettivi autori: il Dorset nel sud-ovest dell'Inghilterra e la contea di Oxford nello Stato del Mississippi. La pubblicazione di Troppa felicità, la tredicesima raccolta di short stories della canadese Alice Munro, torna a ricordarci dell'esistenza di un'altra grande regione letteraria – il Southwestern Ontario o «Sowesto» – che, qualcuno scommette, presto diventerà una meta consigliata dalle guide turistiche.
Troppa felicità è l'ultimo libro della Munro in ordine di tempo, e non sarà l'ultimo. Anche se lei, che va per gli ottantuno, ogni tanto dice di temere di non riuscire più a sostenere lo sforzo "maieutico" per mettere al mondo i suoi racconti, e qualche anno fa dichiarò pubblicamente di voler smettere. La cosa per fortuna durò solo tre mesi: «I wasn't very good at not writing…»
In Gran Bretagna è uscita da poco anche una seconda antologia (New Selected Stories, Chatto and Windus), che raccoglie il meglio della sua produzione a partire dal 1998, ed è doveroso precisare che fu Cynthia Ozick la prima a predire, anni addietro, che la Munro sarebbe stata di lì a un secolo la sola dei contemporanei a essere ancora letta. E la paragonò, senza esagerare, ad Anton Cechov. Il tempo le sta dando ragione.
Tuttavia, della Munro – che pure ha ricevuto raffiche di premi, anche fuori del Canada, è stata tradotta in una ventina di lingue ed è adorata come «una divinità letteraria» a livello internazionale – si continua a dire che meriterebbe di essere non solo nota, notissima, come di fatto è, ma addirittura famosa. Perché è sì, indubitabilmente, «la Signora del Racconto», ma quel che scrive sono, appunto, solo racconti. Non romanzi. Ed è questo che fa la differenza.
È un pregiudizio diffuso – a partire dagli editori, che però ragionano con criteri diversi da quelli dell'ipotetico lettore che ho in mente – il pensare che sia più difficile scrivere romanzi piuttosto che racconti. In verità è spesso vero il contrario. Se non altro perché il racconto – «hic Rhodus, hic saltus» – in poche pagine mette a repentaglio la reputazione di uno scrittore. C'è poi il fatto, come ha ricordato anni fa John Banville, proprio recensendo la Munro su «The New York Review of Books», che il racconto, a differenza del romanzo, non è mai stato veramente toccato dal modernismo. È sfuggito agli sconvolgimenti formali che hanno investito la letteratura nel secolo passato e per questo motivo è stato messo un po' da parte, come un accessorio fuori moda.
Ma torniamo a Sowesto. E cominciamo con lo scartare l'idea che il mondo circoscritto della Munro appartenga alla tradizione della commedia di costume. Scandali e delitti compresi. Questi ultimi ci sono, intendiamoci, ma sono paradossalmente più vicini ai grandi conflitti dei re shakespeariani, come è stato detto e scritto, che alle violenze – fisiche e psicologiche – e alle porcaggini di maniera cui siamo soliti assistere nelle rappresentazioni della vita di provincia.
La Munro viene talora accostata a Philip Roth, e non tanto per la sottile complessità degli intrecci, come si dovrebbe, quanto per la frequenza con cui ricorrono nelle sue storie temi che in modo diretto o indiretto hanno a che vedere col sesso. Anche se il tutto si limita di solito alla fuggevole descrizione di un letto disfatto o alla rievocazione di una diceria. Non per pruderie, si badi, ma perché questo è il modo di raccontare della Munro. In presa "indiretta" e attraverso un susseguirsi di aggiunte e riconsiderazioni in cui passato e presente si intrecciano e danno luogo a uno sfalsamento della percezione. Perché questo è il modo in cui la realtà si presenta sempre alla nostra coscienza. E non solo nei sogni.
La Munro è tuttavia davvero una scrittrice osé e quel che mette a nudo sono i pensieri segreti e le pulsioni inconfessabili della gente comune. Del lettore comune. Nella sua poetica, per dirla con un termine antiquato, è previsto l'obbligo della sorpresa, che però non consiste di solito in un semplice colpo di scena finale, com'è nella struttura classica del racconto, bensì nel succedersi di inaspettati cambi di direzione dovuti alle inusitate decisioni dei personaggi. Perché, per fare un esempio, un padre uccide i propri figli e la loro madre continua a fargli visita dov'è detenuto? Perché una giovane studentessa accetta di cenare nuda – ed è tutto – con un vecchio che non ha mai incontrato prima e che non rivedrà mai più? Nessuno lo può sapere. Eppure, è proprio la maniera rapsodica in cui sono raccontate le storie a costringere la mente del lettore non solo a mantenersi vigile ma a metterci del suo.
Non serve analizzare i fatti: al cuore del mistero – cioè a confessare a se stessi la profonda verità di una situazione anche senza "capirla" – si arriva attraverso quello che possiamo chiamare un atto di partecipazione. E come, guardando certi disegni, succede che il cervello, a causa di una illusione ottica, "veda" una linea che di fatto non c'è, così i racconti della Munro arrivano a toccare la parte incontrollabile e inconscia della nostra mente – la nostra comune umanità – attraverso una tecnica che è peraltro aliena da qualunque appello di carattere sentimentale.
Non ho capito fino in fondo come questo possa succedere, ma so che Ann Close, da trent'anni editor della Munro a Knopf, ha dichiarato qualche anno fa a un convegno di avere spesso la sensazione, dopo aver letto una prima volta un racconto, di ricordare una frase o un dettaglio che in realtà sulla pagina non esisteva. In altri tempi, gli antenati presbiteriani della stessa Munro, il cui cognome alla nascita era quello dei Laidlaw della contea di Selkirk, in Scozia, qualche sospetto che si trattasse di stregoneria lo avrebbero avuto.

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