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Questo articolo è stato pubblicato il 19 febbraio 2012 alle ore 08:16.

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Nel breve racconto di Kafka La partenza, al servo che gli sella il cavallo e gli chiede dove vada, il padrone risponde: «Non lo so. Pur che sia via di qua, via di qua, sempre via di qua, soltanto così posso raggiungere la mia meta». Adattando tale risposta al tema della morte, Umberto Curi argomenta sul fatto che tutti andremo certamente via da questo mondo, ma che ignoriamo radicalmente la meta del nostro viaggio. Non sapremo mai, infatti, se la morte costituisce un passaggio verso un'altra vita, una specie di cambio di domicilio, oppure un irreversibile salto verso il nulla. Nel linguaggio di Seneca, essa ci pone, infatti, davanti all'alternativa insolubile di rappresentare Aut finis aut transitus.
Che esista un'implicazione reciproca tra vita e morte, che vi sia tra loro una duplicità ineliminabile priva di "superamento" dialettico, lo testimoniano molte culture. Un simile legame viene, in particolare, presentato dai miti e dalle divinità della tradizione occidentale, sia pagana sia cristiana. Seppure in modo diverso, tutti i suoi esponenti (Apollo, le Parche, Medusa, Prometeo, Orfeo e perfino Gesù) mostrano che la morte è dentro la vita, che la nascita è l'inizio della morte e che forse la morte – in una sorta di mutua convertibilità dei termini – è il vero dies natalis.
Con una sapiente, densa e incalzante analisi dei miti e della tragedia greca (in particolare dell'Alcesti di Euripide), delle descrizioni di un sarcofago romano da parte di Rilke, dei racconti di Kafka, delle posizioni teoriche di Kierkegaard, Nietzsche e Derrida (con sullo sfondo l'episodio biblico del sacrificio di Isacco e della morte in croce di Gesù), Curi riflette sull'impensabilità della morte e sulla necessità di "prendersi cura" di essa, di esercitarsi nel riconoscere la sua inseparabilità dalla vita: «Non è concepibile la morte se non in relazione alla vita, perché ne definisce il senso e l'importanza, perché ne fa affiorare la sua più intima essenza. Deprecata perché segna la fine di quel bene supremo che è la vita, o auspicata come termine ai mali di cui la vita stessa è intessuta, la morte è ciò che conferisce alla vita il suo significato più proprio».
Attraverso l'esame di testi antichi, specialmente del Prometeo di Eschilo e del Protagora di Platone, Curi illustra anche un inaspettato lato politico della morte. La politica, dice, è un antidoto a essa, un pharmakon, ma nel doppio senso della medicina e del veleno. Prometeo regala agli uomini i doni della tecnica a patto che essi dimentichino la loro condizione di mortali. Il suo dono (doron) ha però, di nuovo, una duplice natura, dato che nasconde un inganno (dolos): «Libera dalla morte, non perché possa cancellarla, bensì perché spinge gli uomini a guardare altrove». Più esattamente, l'inganno di questo gigante consiste nel nascondere il veleno insito nella tecnica, nell'oblio e in speranze ingannevoli. Come rimedio, Platone indica la politica, tecnica suprema, consapevole dell'impossibilità che essa fornisca una cura efficace, giacché «l'esistenza stessa della politica è indizio della "malattia" del corpo sociale», una malattia che si contagia alla politica, che è, a sua volta, un pharmakon che guarisce e avvelena insieme.
La vita umana nel suo complesso è una mescolanza inestricabile di bene e di male, è «l'essere costantemente in bilico tra miseria e grandezza, tra prosperità e affanni, tra gioie e dolori, tra salute e malattia. Più ancora, l'essere sempre e comunque esposti all'una e all'altra cosa – non poter essere soltanto uno –. Nessuna compiuta salvezza è concessa. Ma solo quell'incerta, sospesa, ambivalente condizione, nella quale la salvezza si accompagna e resta indissolubile rispetto alla caduta».
Al termine di ogni riflessione sulla morte, aggiungo, non abbiamo alcuna rivelazione del suo enigma, ma soltanto la conferma delle parole di Tolstoi alla fine di Anna Karenina: «Non ho scoperto nulla, ho soltanto imparato a conoscere quel che sapevo». In un testo appena pubblicato in italiano, Vladimir Jankélévitch si interroga, poi, sull'utilità e sul paradosso della meditatio mortis: «Anche se avesse, ogni giorno della sua vita, pensato alla morte, accumulato tesori di profonde riflessioni, tesaurizzato le massime e le sentenze dei saggi, il mortale resterebbe nondimeno ignorante, inesperto e maldestro; come un bambino piccolo non si impara a morire; non ci si prepara a ciò che appartiene a un ordine del tutto diverso. Ciò che la morte esige è una preparazione senza preparativi».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Umberto Curi, Via di qua. Imparare
a morire, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 236, € 16,50
Vladimir Jankélévitch, Béatrice Berlowitz, Da qualche parte nell'incompiuto, a cura di Enrica Lisciani Petrini, Einaudi, Torino,
pagg. 132, € 9,90

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