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Questo articolo è stato pubblicato il 19 febbraio 2012 alle ore 08:18.

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Per farsi un'idea delle dimensioni della raccolta che l'ingegner Arnaldo Corsi lasciò al Comune di Firenze nel 1938 conviene leggere la vivace relazione del pittore Baccio Maria Bacci, stesa quando l'immane insieme di opere giaceva ancora nell'appartamento dei Corsi: «Tutta la casa ne era piena, tanto che la vita stessa della famiglia doveva adattarsi alla strapotente invadenza di questa valanga di pittura stipata in salotti, in camere, in anditi e perfino in sottoscala e stambugi». Erano migliaia e migliaia di pezzi che però vennero scremati, sì che al Comune ne giunse una selezione d'alto livello.
Dopo vari spostamenti fu alloggiata nel Museo Bardini, risultato a sua volta di un lascito privato: quello dell'antiquario Stefano Bardini, fiorentino che, dopo aver fornito d'ogni ben di Dio musei e collezioni di mezzo mondo, volle rendere un cospicuo omaggio alla città che fu epicentro dei suoi commerci, in anni del XIX secolo in cui le opere d'arte potevano girare senza particolari vincoli né restrizioni.
Sul complesso Corsi nel 1991 fu allestita una mostra con catalogo, curata da Federico Zeri e Andrea Bacchi. Zeri allora sottolineava che questa raccolta era un insieme di grande valore «come testimonianza del gusto del collezionismo» a cavallo tra Otto e Novecento. Rappresentava anche un laboratorio per l'esercizio della filologia in quanto molti quadri giacevano senza nome d'autore e in tal senso avrebbero stimolato gli studi a venire. Tali parole si sono rivelate profetiche alla luce del fatto che da qualche settimana è uscito il catalogo ragionato dei trentasei dipinti italiani del XIV e del XV secolo (Centro Di), un lavoro impeccabile, coordinato da Silvia Chiodo, allieva di quell'instancabile e appassionato maestro delle ricerche sulla pittura medievale italiana che fu Miklos Boskovits, recentemente scomparso, e da Antonella Nesi, direttrice del Bardini.
Nel nucleo dei dipinti Corsi spiccano i nomi di Spinello Aretino, Bernardo Daddi e Jacobello del Fiore, e il complesso più interessante contempla maestri di varie scuole toscane, tutti sotto la lente d'ingrandimento di un'indagine che ha portato a nuove attribuzioni. I quadri attualmente giacciono per lo più nei depositi, ma non è possibile esporli perché gli spazi del museo non consentono accumuli, essendo stati concepiti secondo i criteri e lo stile di una dimora; atelier ottocentesca, con l'apparente scompiglio e le pareti dipinte d'azzurro che ne erano il segno distintivo.
Sullo sfondo azzurro campeggiano sculture stupende, dipinti, tappeti, mobili e suppellettili, ma sono le sculture a farla da padrone, avanzando le credenziali di nomi come Arnolfo di Cambio, Nicola Pisano, Tino di Camaino e Donatello. Di Donatello è presente uno dei sommi capolavori: la Madonna della mela, un superba scultura a tutto tondo di terracotta policroma fino a qualche anno fa ritenuta di bottega. Oggi rifulge nella sua magnificenza e i dubbi attributivi sono definitivamente dissipati.
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