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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2012 alle ore 16:08.

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Tra pochi giorni torna la maratona di Telethon e io farò il possibile per esserci. Tornerò a Roma, in quella divertente e colorata baraonda che è lo studio di un programma televisivo. Sarò lì a lanciare un appello agli italiani, a chiedere soldi per la ricerca sulle malattie genetiche come faccio ormai da parecchi anni. Continuo a farlo, nonostante la fatica dell'impegno, perché sono davvero convinto che l'Italia abbia un disperato bisogno di ricerca scientifica e che la scienza italiana abbia bisogno di Telethon, una Fondazione che merita la fiducia degli italiani e che ha saputo fare qualcosa di importante, qualcosa che ci viene riconosciuto in tutto il mondo.

Ho dedicato gran parte dei miei novanta anni alla scienza biomedica. Mi iscrissi a Medicina quasi per curiosità: a quell'epoca era una scienza davvero imperfetta e intuivo che ci fosse veramente molto da fare. Inizialmente pensavo di diventare chirurgo, poi scelsi la ricerca. Volevo capire i meccanismi delle malattie e apprendere i metodi per curarle.

Per inseguire quel sogno dovetti attraversare l'Oceano Atlantico. Era l'autunno del 1947. Ricordo che sulla mia nave viaggiava un'altra giovane ricercatrice italiana. Il suo nome era Rita Levi Montalcini. Arrivammo insieme negli Stati Uniti, dove restammo per molti decenni, dedicandoci con libertà e grande disponibilità di mezzi alla nostra grande passione, la ricerca scientifica. Abbiamo avuto, entrambi, la forza di resistere alle grandi difficoltà che un mondo nuovo impone sempre. Ma tutti e due abbiamo realizzato aspirazioni e progetti. Lontani e sconosciuti nel nostro Paese.

L'Italia ha saputo di noi molti anni dopo, quando abbiamo vinto un premio Nobel. Allora ci è capitato quello che tradizionalmente accade ai nostri connazionali che raggiungono vette importanti: ci hanno dedicato le copertine dei giornali, ci hanno invitato a parlare nei convegni, a intervenire nei talk show. Ma tutto questo, mi spiace dirlo, non ha portato alcun beneficio reale alla ricerca italiana. Che ha visto ridursi, di anno in anno, l'ammontare delle risorse disponibili. E che ha continuato a essere governata con criteri politici e clientelari, che poco o nulla hanno a che vedere con le regole del mondo scientifico.

Mi si chiederà allora perché continuo a tornare in Italia e ad apparire in televisione, a novant'anni suonati. Lo faccio solo per Telethon.

Una Fondazione seria che promuove una ricerca di altissimo livello in un campo, quello delle malattie genetiche rare, che purtroppo, proprio per la rarità di queste patologie, non attira gli investimenti delle industrie farmaceutiche.

Telethon è nato per volontà di pazienti, che hanno affidato alla ricerca la loro speranza. I ricercatori italiani che studiano le malattie genetiche presentano i loro progetti che negli uffici di Telethon vengono valutati da esperti di grande spessore internazionale secondo criteri di rigore e di eccellenza. Che questo venga fatto in Italia sembra quasi un miracolo, ma è un sistema in uso da molto tempo nei Paesi dove si fa ricerca seriamente, là dove si va a inseguire i sogni. Una volta finanziato, il lavoro degli scienziati di Telethon è seguito con attenzione e c'è chi controlla come vengono spesi questi soldi. Solo chi ottiene buoni risultati può vedere finanziata ancora la propria ricerca. E così si va avanti.

Mille quattrocento progetti finanziati, centinaia di ricercatori e migliaia di pubblicazioni scientifiche di grande rilevanza mondiale sono i numeri che fanno la differenza. E i risultati non sono mancati. Sono diverse decine i geni identificati grazie a Telethon. Per molti di questi oggi si conosce anche il meccanismo con cui funzionano, sia in situazioni normali, sia in condizioni di malattia.

Recentemente, poi, è stato raggiunto un grande risultato: per la prima volta sono stati definitivamente curati con la terapia genica alcuni bambini affetti da una grave malattia genetica, la immunodeficienza combinata grave da deficit di Ada. É stato un risultato di Telethon del quale gli italiani devono andare orgogliosi. Le malattie da curare sono ancora moltissime: la strada non può che essere la ricerca; per questo mi auguro che il contributo degli italiani anche questa volta sia generoso ed entusiasta.

C'è poi un altro motivo che mi tiene legato a Telethon. Che riguarda i giovani ricercatori. Sono loro che hanno in mano il futuro. Bisogna lasciarli liberi di sviluppare le idee e dare loro gli strumenti per realizzarle. É a loro che ho pensato quando ho partecipato al Festival di Sanremo, nel 1999. In quell'occasione decisi di devolvere il mio cachet alla Fondazione Telethon perché creasse un istituto in grado di attirare giovani promettenti scienziati italiani, permettendo loro di sviluppare i progetti e creando le condizioni per far crescere una ricerca di alto livello, anche in Italia.
Ebbene, cinque anni dopo sono fiero di poter dire che quell'istituto è nato, si chiama, in mio onore, Istituto Telethon Dulbecco e ha permesso il rientro in Italia di 24 ricercatori di prim'ordine. Chissà che tra loro non ci sia qualche altro futuro Premio Nobel. Dopotutto cinque dei miei allievi, negli anni, hanno raggiunto quell'importante traguardo. Potrebbe accadere anche agli scienziati di Telethon. Allora sì che sarà valsa la pena di tornare in Italia, per parlare in tv.

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