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Questo articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2012 alle ore 08:18.

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Nelle severe sale dell'Archivio di Stato di Torino sono stati esposti (oggi è il loro ultimo giorno) una miriade di codici membranacei e cartacei, di libri illustrati, mappe, carte e planisferi, disegni, atlanti, suntuose legature, assieme a varie ed eccezionali raccolte di disegni di architettura (come il museo portatile di Filippo Juvarra). In tutto 537 numeri di catalogo che testimoniano di tre secoli di acuta, informata e intelligente bibliofilia, anzi di qualcosa di più. Resta un catalogo ponderoso a testimoniare tanta ricchezza.
Quando Emanuele Filiberto decise di spostare la capitale dei suoi Stati da nord a sud delle Alpi trasferendola da Chambéry a Torino accanto al progetto politico, edificatorio, militare ne aveva uno culturale che si lascia rivelare negli accenni a un Theatrum omnium disciplinarum. Un progetto ancora nebuloso ma che appartiene bene al tempo in cui (1550), di Giulio Camillo, il grande architetto della mnemotecnica, veniva pubblicato L'idea del Theatro (cinque copie esistevano ai tempi di Carlo Emanuele I nella Biblioteca granducale), e in cui si attendeva con ansia l'invenzione e la messa in pratica di un congegno, di una macchina che permettesse di impadronirsi di tutto il sapere universale.
Queste attese si concretarono nella costruzione e nella decorazione da parte del figlio, Carlo Emanuele I, della Grande Galleria che congiungeva l'antico castello al nuovo palazzo ducale di Torino. La sua intenzione era di farne una gigantesca «Kunst und Wunderkammer» dove i prodotti della natura e della cultura potessero felicemente armonizzarsi sovrastati nella volta dalle immagini celesti, il moto de' cieli, de' pianeti e delle stelle, in un programma che avrebbe dovuto allargarsi fino a essere un «compendio di tutte le cose del mondo». L'ambizioso progetto fu mutato e fu ai libri più che alle immagini che venne affidato il compito di presentare questo «compendio». Qui infatti «entro credenzoni messi a oro» si trovava «una numerosa, varia e peregrina quantità di libri scritti e stampati». Un incendio devastò la galleria nel 1667 ma alcuni dei suoi tesori poterono essere salvati. Parte di qui, attraverso un duro impegno di esplorazione degli inventari e di riconoscimento delle opere, la restituzione di questo ammirevole teatro della memoria che è il primo capitolo della ricchissima esposizione torinese.
Carlo Emanuele I fu un singolare personaggio. Una testa calda che si slanciava con passione in ogni avventura guerresca conducendo, privo di carte geografiche, una sorta di Blitzkrieg che lo portò fino a Marsiglia per essere regolarmente trattenuto, battuto e respinto da Lesdiguières la volpe del Delfinato, generale e amico di Enrico IV, ma fu anche, un uomo di mille curiosità. Aveva appena letto il Sidereus Nuncius galileiano che già chiedeva al figlio di procurargli «quel canone di ferro bianco chel serve per vedere di lontano», oppure voleva assolutamente avere quel «libro de' pesci» di Ippolito Salviano che, splendidamente illustrato da Nicolas Béatrizet, era stato stampato a Roma più di mezzo secolo prima e ottenutolo se ne servì come libro di modelli per i suoi artisti. Nel 1615 compra ventisei volumi di disegni, un'autentica enciclopedia dell'antichità, di Pirro Ligorio che tutt'Europa gli invidia. Acquista dagli eredi i libri del cardinale Domenico Della Rovere compreso il portentoso Messale e da Carlo I Gonzaga la Mensa Isiaca che era appartenuta a Pietro Bembo e codici miniati di straordinaria importanza.
Nel 1720 si istituì una «amplia e scelta biblioteca per commodo sì degli studenti che del pubblico» destinata all'Università, cui Vittorio Amedeo II, divenuto ormai re, conferì gran parte delle collezioni librarie dei Savoia. Chi le aveva consultate negli ultimi decenni, grandi eruditi come Mabillon e Montfaucon, le aveva trovate molto trascurate. Una biblioteca universitaria del Settecento è altra cosa nel progetto e nelle scelte di un «teatro della memoria» o di una collezione di meraviglie. I curatori della mostra compulsando in lungo lavoro i registri di pagamento ancora conservati hanno potuto stabilire, così come per quella dei Regi archivi, la provenienza, il costo e la data d'entrata dei singoli libri che si tratti dell'Encyclopédie, di un blocco di incunaboli, di trattati medici, astronomici geografici, botanici, magari acquistati in Olanda, di testi arabi o di manoscritti miniati provenienti da un'antichissima abbazia, come le splendide pagine dipinte a Bobbio, il cenobio fondato da san Colombano, un monaco irlandese. C'è poi anche da considerare la Biblioteca antica degli archivi di Corte dove – dopo la costituzione di una biblioteca pubblica – rimasero libri, carte e documenti utili al governo dello Stato, alla storia della dinastia e una notevole parte degli antichi manoscritti. Sappiamo fino a che punto l'incendio del 1904 della Biblioteca Nazionale fece celebri vittime nel patrimonio librario torinese, ma alla mostra spiccavano molte testimonianze di redivivi, superbe pagine restaurate di miniatori francesi e fiamminghi del Quattrocento, di manoscritti appartenuti al duca di Berry, alle più nobili case d'Italia e ad antiche abbazie, insieme a quelli conservati agli Archivi che non avevano subito la prova del fuoco. Per la prima volta si poteva avere un'idea della ricchezza, della singolarità e della varietà della biblioteca di una corte di frontiera di cui nel 1711 Scipione Maffei, aveva rivendicato l'importanza scrivendo ad Apostolo Zeno: «Di tutt'altro avrete inteso parlare che della Biblioteca di Torino e dei suoi manoscritti, credendosi comunemente che questa estrema parte d'Italia sia priva di quelle preziose rarità, delle quali abbondano tutte l'altre...».

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