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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2012 alle ore 08:17.

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Sulle pagine di questo giornale Sergio Luzzatto ha giustamente osservato come pochi siano i libri di storici italiani tradotti in inglese. Ne ha indicato una ragione nel "parlare oscuro" che ne inficia talora la prosa, poco appetibile sul mercato internazionale per le difficoltà della traduzione. Occorre tuttavia distinguere, perché scrivere con chiarezza in italiano non implica adottare tout court i canoni della lingua inglese. L'italiano discende dal latino, dalla consecutio temporum, dal classicismo di Pietro Bembo, e per esempio si esprime con un complicato «sarebbe stato meglio se non avessi detto» piuttosto che con un semplice «era meglio se non dicevi», senza dubbio più facile da tradurre. Le lingue hanno un loro esprit, e quello dell'italica favella è più difficile da rendere in inglese di quanto non sia la traduzione in italiano del paratattico inglese. Il che non significa negare che gli artifici retorici di prose oscure servano solo a mascherare una scarsa chiarezza di pensiero. Rem tene, verba sequentur, ci insegnavano al liceo, e ben venga l'invito di Luzzatto a farsi capire dal pubblico cui ci si rivolge.
A me pare tuttavia che il problema dello scarso interesse della storiografia anglosassone per quanto si scrive e si pubblica nel nostro Paese abbia altre e più rilevanti ragioni. Come ha osservato Luzzatto, non sempre si traduce il meglio, né il meglio viene tradotto. I canali e le scelte sono vari e molteplici, talora casuali. Ma il punto è che la traduzione sta diventando uno strumento obsoleto per la diffusione della cultura. Quello che si chiede alle nuove generazioni che si affacciano alla ricerca non è di scrivere libri così belli e così chiari da poter essere tradotti, ma si chiede loro di scriverli direttamente in inglese, belli o brutti, chiari o oscuri che siano. E poiché ciò è già avvenuto in ambito scientifico, i saperi umanistici sono chiamati ad adeguarsi, e a farlo in fretta. Giusto o sbagliato che sia, piaccia o non piaccia, questo processo andrà avanti sempre più impetuoso, non certo contrastato dalle velleità modernizzatrici di improbabili ministri, convinti che l'upgrading delle nostre università sia un target primario dei corsi advanced, né dall'innocenza dello studente che all'esame mi parlava dell'absaid di una chiesa, né dalla sicumera del telecronista che riferiva del meeting o summit rinviato sain dai (sine die per chi, come me, non avesse colto al volo). Ciò detto, mi è difficile capire perché nel propormi di valutare dei progetti di ricerca italiani il ministero dell'Università mi chieda un curriculum vitae in inglese, anzi me ne chieda sadicamente due: uno breve e uno lungo (sempre a proposito di chiarezza).
La convinta difesa della biodiversità e dei cibi a chilometro zero, insomma, si sposa con l'apoteosi del monismo linguistico, che tuttavia – è bene saperlo – comporta un grave impoverimento proprio della cultura che si esprime con la lingua vittoriosa. A leggere tanti libri che escono da illustri University Press americane c'è da restare sconcertati nello sfogliare bibliografie solo in inglese, anche in studi che si occupano della storia di altri Paesi. Le fonti stesse sono sempre più citate solo in traduzione: se qualche oscuro traduttore ha interpretato male un passo del grande Erasmo, quello resterà per sempre il pensiero di Erasmo, che oltreoceano si legge ormai nella monumentale edizione dell'Erasmus in english. E così via per Ludovico Ariosto, Baldassar Castiglione, Giovanni Calvino e tanti altri. Perché del resto perdere tempo a studiare il difficile latino, quando tutto è ormai accessibile nella propria lingua? Sempre più spesso ne conseguono risultati mediocri e talora penosi, anche soltanto al livello elementare dei fatti: banalità, approssimazioni, strafalcioni, che tali restano anche se espressi con limpida chiarezza. Nella Saggezza straniera Arnaldo Momigliano ci spiegò che in età ellenistica chi non parlava greco era tagliato fuori dalla cultura e dal mondo, e così oggi è per l'inglese. Ma forse si dovrebbe fare qualcosa perché chi scrive in inglese non legga solo in inglese; e anche per diffondere di più gli studi italiani in un mondo anglofono sempre più autoreferenziale: per esempio, tra i tanti soldi spesi più o meno bene dalle Fondazioni bancarie, non si potrebbe trovare un piccolo fondo per finanziare la traduzione di qualche libro italiano importante?
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