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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2012 alle ore 08:14.

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Ilaria Borletti Buitoni è presidente del Fai da due anni, da quando Giulia Maria Mozzoni Crespi, la carismatica fondatrice del Fondo per l'Ambiente italiano, le ha consegnato il timone del comando. Due anni praticamente trascorsi in viaggio, innanzitutto sulla tratta tra Perugia (dove vive) e Milano (dove ci sono gli uffici di presidenza) e poi attraverso un'infinità di varianti di percorso per partecipare a incontri con autorità e delegazioni, a convegni, a giornate di studio, a ricognizioni e sopralluoghi sul territorio. Osservando la sua agenda ci si domanda quando la presidente Borletti abbia trovato il tempo di scrivere il libro Per un'Italia possibile (Mondadori, pagg. 128, € 13,00) disponibile in libreria dal 13 marzo prossimo.

«L'ho scritto in due mesi» taglia corto la pragmatica presidente, e subito mi guarda cortese aspettando che le rivolga la seconda domanda.

Allora ricomincio dal Fai, il Fondo per l'Ambiente italiano. Chiedo: che cosa significa per lei, personalmente, questa vivace fondazione?

«All'inizio il Fai era per me una curiosità. Poi si è trasformato in un interesse e adesso, devo dire, è diventata una passione. Il lavoro che sto facendo mi appassiona enormemente, lo vivo come si vivono le passioni, cioè cercando di fare il massimo, anzi più del massimo».

Presidente, perché ha scritto questo libro?
«L'Italia sta vivendo un dramma che perlomeno la mia generazione non aveva mai conosciuto in questa grandezza. Assistiamo impotenti e ammutoliti all'incapacità degli italiani di percepire il paesaggio e il patrimonio culturale come un prezioso bene collettivo, per cui ci si continua ad accanire contro di esso per pura rapacità economica. Noi dobbiamo cercare di reagire a questa deriva di insensibilità. Questo libro è un tentativo di reazione, e parte dal fatto che cultura e tutela possano essere motori capaci di invertire la rotta».

Perché noi italiani siamo così insensibili alla salvaguardia del paesaggio? Che cosa ci è successo?

«Vede, le ragioni sono tante e intrecciate tra loro. Noi siamo degli individualisti, non amiamo la disciplina di gruppo, l'io predomina nelle nostre azioni. Il concetto di bene collettivo è un concetto debole nella natura italiana, vuoi per la nostra storia tutta localistica, vuoi, appunto, per la nostra propensione alla coltivazione tenace dell'io. Poi, abbiamo così tanta bellezza in Italia da cullarci nell'errata convinzione che questo sia un bene imperituro e inesauribile. Non solo. Nell'Italia del dopoguerra la politica è stata dominata da due "chiese", cioè la Chiesa cattolica e il Partito comunista. Ebbene, da queste due "chiese" il paesaggio è stato percepito come qualcosa di aristocratico e lontano dal popolo. A mio modo di vedere la Chiesa cattolica ha rinunciato alla dimensione della bellezza a metà Ottocento, mentre il Partito comunista ha percepito la bellezza come un concetto elitario e borghese. Queste due grandi realtà – che pur hanno il merito di aver traghettato l'Italia fuori dalla crisi dell'ultima guerra – non si sono in verità mai occupate sul serio di patrimonio culturale e hanno lasciato che la politica abbandonasse il paesaggio a se stesso invece di tutelarlo e valorizzarlo. Così, oggi, i nodi sono arrivati al pettine. Il nostro paesaggio è la fotografia di quanto è avvenuto».

Il paesaggio è uno dei temi forti del suo libro. Un altro è l'educazione delle generazioni future.

«Io penso che la percezione del patrimonio culturale come di un bene comune a tutti debba entrare nella sensibilità delle persone molto presto. Se nessuno insegna ai bambini di oggi che camminare in un bosco o entrare in un museo può essere un'esperienza divertente, difficilmente il ragazzino quando sarà adulto percepirà l'importanza di mantenere e tutelare questi ambienti. La scuola e i media dovrebbero avere un ruolo fondamentale per la buona educazione dei cittadini, così come ce lo dovrebbe avere la politica. Io sono polemica, ma non hanno aiutato nessuno le espressioni denigratorie riservate alla cultura espresse da certi politici nostrani. L'esempio dall'alto è invece fondamentale. Certo che se si dice agli italiani di costruire comunque e ovunque perché solo così possiamo crescere, l'esito è scontato: assistiamo alla devastazione del paesaggio, cioè di un bene comune a tutti».

Che cosa ha fatto e farà il Fai per contrastare questa deriva?

«Da quasi quarant'anni il Fai ha acquisito beni artistici e paesaggistici, li ha amorevolmente restaurati e restituiti alla collettività. Continuerà a farlo, ma oggi è forse chiamato a fare di più: ad esempio, a offrire la propria esperienza e competenza nella gestione di beni che lo Stato non riesce a mantenere e gestire. È infatti riconosciuto che lo Stato non possa più gestire da solo tutto il patrimonio di sua competenza. Bene, i privati possono affiancarsi efficacemente e mettere a disposizione risorse e competenze per una gestione più efficiente. Noi del Fai siamo pronti a farlo».

Mi sta dicendo che, oltre alle indubbie capacità di gestione, disponete di molte risorse?

«Le difficoltà oggettive che anche noi incontriamo sono uno stimolo per aguzzare l'ingegno. La strada maestra per reperire risorse sarà comunque quella di allargare sempre più il numero degli aderenti. Il nostro sodalizio deve diventare un grande movimento di opinione che persegue uno scopo non estetico ma altamente civile: impegnarsi per avere un Paese bello per vivere tutti meglio».

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