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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2012 alle ore 16:16.

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Stupisce apprendere che uno dei musei più visitati di Londra - subito dopo il British Museum e la National Gallery - sia il Museo delle Cere di Madame Tussaud. La ceroplastica tira, anche se la maggioranza di chi si accalca alla ricerca del macabro fascino delle cere probabilmente ignora l'origine e gli sviluppi di quest'arte antica e particolare.

Una mostra piccola ma raffinatissima, aperta da oggi a Palazzo Fortuny a Venezia, ci racconta la storia dei ritratti di cera. Curata con passione e competenza da Andrea Daninos e allestita nella fascinosa casa-museo di Mariano Fortuny da Daniela Ferretti, questa rassegna appare subito non solo originale e intrigante, ma anche piuttosto inquietante. Proviamo a percorrerla.

I primi a realizzare imagines furono i romani, che erano usi immortalare le fattezze degli antenati in maschere di cera calcate sui volti dei defunti. La consuetudine durò per secoli, e Giorgio Vasari ci conferma che era ancora assai vivace ai tempi suoi. A Firenze - dice lo scrittore cinquecentesco - c'era l'uso «di formare teste di coloro che morivano con poca spesa, onde si vede in ogni casa, sopra i camini, usci, finestre e cornicioni, infiniti detti ritratti di cera, tanto ben fatti e naturali che paiono vivi».

Queste cere riempivano anche le chiese italiane in qualità di ritratti votivi, e la loro presenza si prefigurò a un certo punto così ingombrante e inquietante che venne ordinato il loro abbattimento. A fine Settecento, ad esempio, perirono in un solo colpo le ceroplastiche votive della Santissima Annunziata di Firenze e della Madonna della Quercia di Viterbo. Paradossalmente, però, fu proprio il Settecento il secolo del maggior rilancio della ceroplastica che si dimostrò un'arte assai congeniale su almeno tre fronti: la raffigurazione del potere, la pietà religiosa, la ricerca scientifica.

In questi tre ambiti si muove la mostra veneziana. Fin dal Medioevo, quando un monarca moriva, vi era l'uso di collocare sulla bara l'effigie in cera rivestita dei segni distintivi del potere regale. Mentre il corpo veniva velocemente occultato nella tomba, la 'persona ficta' in cera prendeva il suo posto nelle interminabili cerimonie funebri. Sono da intendere così i ritratti funebri dei dogi di Venezia Mocenigo e Loredan, e del patriarca Correr, che si ammirano al principio della rassegna.

Sempre in tema di raffigurazione del potere, vanno visti anche gli spettacolari busti di Vittoria di Savoia Soisson, di Vittorio Amedeo III di Savoia, di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone (opere tardo settecentesche dell'abilissimo Francesco Orso), come pure il ritratto incredibilmente dimesso e feriale della regina di Napoli Maria Carolina. Osservando queste cere ci rendiamo conto che la materia prima, ovvero la cera d'api, veniva frammista a pigmenti colorati in modo da raggiungere impressionanti effetti di verità. Inoltre, i capelli, le barbe e le stoffe erano spesso vere e - in qualche caso - persino appartenuti agli interessati. Gli occhi erano fatti rigorosamente di vetro. Nella loro spietata verità questi ritratti ci attraggono e respingono a un tempo. Perché? I curatori ci spiegano che si tratta del 'sex appeal dell'inorganico', provocato dall'ambigua affinità tra cera e carne (entrambe molli e deperibili) che non ci permette quel distacco che, invece, proveremmo se questi ritratti fossero di marmo o di legno.

In virtù della capacità di coinvolgere emotivamente, le autorità religiose deprecarono l'uso delle ceroplastiche licenziose o spaventevoli, mentre incoraggiarono la produzione edificante, come bene documenta in rassegna la sequenza di teste di santi e beati francescani pensosi e barbuti provenienti dalla sacrestia del Redentore di Venezia.
Esattamente di fronte alla teca dei santi si trova una teca dal contenuto leggermente raccapricciante: vi si ammira una serie di maschere funebri di criminali colte al momento della morte. Niente paura, siamo entrati nell'ambito scientifico della ceroplastica. Queste dodici maschere di criminali vennero modellate in cera a fine Ottocento da Lorenzo Tenchini, un anatomopatologo dell'Università di Parma seguace di Cesare Lombroso, al fine di documentare per la scienza le caratteristiche fisiognomiche di differenti malviventi (rapinatori, assassini, ladri e incendiari), dei quali vennero anche accuratamente conservati in barattoli i crani e le materie celebrali.

La capitale della ceroplastica scientifica fu però Bologna. Qui, papa Benedetto XIV Lambertini aveva fondato il Gabinetto di notomia umana e incaricato il ceroplasta Ercole Nelli di realizzare un'imponente serie di cere anatomiche ancora oggi conservate in Palazzo Poggi. Attorno a Nelli si sviluppò una tradizione di abilissimi scultori in cera come Filippo Scandellari, i Piò, Giovanni e Anna Manzolini e Luigi Dardani. Questi personaggi - oltre alle ceroplastiche anatomiche - realizzarono ritratti in cera di sorprendente verità, come il ritratto dell'architetto progettista di San Luca, Carlo Francesco Dotti, il ritratto della devota Anna Maria Calegari e quello del suo biografo Ercole Isolani, che ammiriamo con autentico stupore in mostra.

L'ultima sala è quasi commovente. Dentro due scarabattoli di legno si conservano due bambini a grandezza naturale, elegantemente vestiti, ritrovati nei soffitti di Palazzo Mocenigo in occasione delle ricerche messe in campo per la mostra. Nonostante la piacevolezza dei soggetti e la loro 'bella cera', queste due statue inquietano ulteriormente: l'uva e le ciliegie che i bimbi hanno in mano - simboli della passione di Cristo - ci fanno capire che, attraverso le cere, si tentò dolorosamente di riportare in vita due pargoletti già passati all'oltretomba.

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