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Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2012 alle ore 17:14.

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Qualcuno sostiene che la vecchiaia ci rende miti. Bruce Springsteen è la testimonianza vivente che questo qualcuno si sbaglia: 63 anni suonati e una rabbia ancora maggiore dei tempi in cui urlava contro l'America della deregulation reganiana.

Prendete l'ultimo disco, uscito proprio in questi giorni con quel titolo programmatico: «Wrecking Ball», ossia una «palla demolitrice» per abbattere i falsi miti del fondamentalismo finanziario che ha ridotto gran parte dell'Occidente civilizzato sul lastrico. Il boss ci va giù duro, come forse in carriera sua aveva fatto soltanto con il combat folk di «Nebraska». E dell'album dell'82 il nuovo nato è parente stretto, vuoi per il malessere espresso senza troppi giri di parole di fronte a ingiustizie sociali mai così lampanti, vuoi per atmosfere musicali che – anche quando azzardano qualche sperimentazione di troppo – non perdono mai di vista la tradizione.

La band. La genesi dell'opera è senza dubbio curiosa. Quasi tutto il disco è stato scritto l'anno scorso. Fanno eccezione la title track, risalente al 2009 e suonata dal vivo nel «Working on a dream tour», «American land», figlia della tournee con Seeger Sessions Band, e «Land of hope and dream», risalente addirittura al 1988 e suonata per la prima volta undici anni dopo, in occasione della reunion con la E-Street Band. Non c'è da meravigliarsi, allora, del fatto che il Boss si sia fatto accompagnare da una band «mista»: c'è lo zoccolo duro della E-Street Band (Steve Van Zandt, Max Weinberg, Patti Scialfa e il compianto Clarence Clemmons, il cui sax appare in due brani), ci sono i session men del progetto dedicato Pete Seeger che qua e là compaiono e alla chitarra Tom Morello, ex Rage Against the Machine e Audioslave. Un professionista in quanto ad «arrabbiature» musicali.

Tra rabbia e redenzione. La rabbia è il tema che apre il disco: «We take care of our own» è il graffiante ritratto rock di un'America che ormai riesce solo a prendersi cura di sé stessa, «Easy Money» un country gospel che bestemmia contro il popolo che non ha altro dio all'infuori dell'orso e del toro di Wall Street, «Jack of all trades» una dolente ballata sul precariato dell'anima. Per capirci: «Il banchiere diventa sempre più grasso, il lavoratore sempre più magro, accadeva prima è succederà di nuovo (…), sono un uomo tuttofare e, cara, andrà tutto bene».

Tra rap e country. La seconda parte dell'album, quella dedicata alla redenzione, convince meno in quanto a scelte musicali. Per carità, «Wrecking Ball» è un pezzo credibile quanto solo le title track del Boss sanno esserlo. Ma «Rocky ground» rappresenta per esempio un'insolita incursione in territori rap esplorati grazie alla complicità di Michelle Moore. E «Land of hope and dreams» coniuga cori gospel, riff tipicamente springsteeniani a beat di drum machine. Come dire: certe cose dal boss non te le aspetteresti. Per fortuna c'è «You've got it». Orecchiabile, epica e trascinante come i brani più riusciti del repertorio del Nostro. Trenta secondi e l'hai già imparata. Scommettiamo che nel prossimo tour si imporrà come classico? A proposito: il 7 giugno il Boss sarà a San Siro, il 10 al "Franchi" di Firenze e l'11 al "Rocco" di Trieste. Provare per credere.

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