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Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2012 alle ore 19:52.

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Il 47 per cento di analfabeti vi sembra un'esagerazione? Prima di allarmarci potremmo provare a consolarci in due modi. Primo: obiettare che i dati della voce di Wikipedia si fermano al 2003. Magra consolazione. Il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ci ha ricordato, nel suo recentissimo Investire in conoscenza e sul Sole 24 Ore-Domenica di due settimane fa, che negli anni successivi gli analfabeti funzionali sono saliti all'80%! E un allarme simile è confermato da uno dei nostri massimi linguisti, Tullio De Mauro. Anche la tv, dopo aver fortemente contribuito alla crescita e unificazione linguistica del Paese, ora sta assecondando il movimento opposto.

Secondo modo di consolarci: si tratta di «analfabetsimo funzionale» e non di analfabetismo tout court, dal quale siamo usciti con un grande sforzo collettivo con la ricostruzione del secondo dopoguerra.
Magra, magrissima consolazione anche questa, alla quale si può rispondere con la famosa battuta di Eugenio Montale, che aveva già capito tutto: «Il rapporto tra l'alfabetismo e l'analfabetismo è costante, ma al giorno d'oggi gli analfabeti sanno leggere». Sanno leggere 'tecnicamente', nel senso che per lo più riconoscono i caratteri, e sanno maldestramente far di conto. Peccato che nell'80 per cento dei casi non capiscano quello che leggono e non dispongano di quel minimo di attrezzatura intellettuale utile a orientarsi nel mondo. Non sono in grado per esempio di capire e compilare un modulo in cui vengano richieste non solo informazioni anagrafiche, ma anche riguardanti la propria posizione professionale, previdenziale o fiscale. E se nei paesi civili la media dei cittadini di questo tipo si assesta sul 20%, da noi le percentuali sono invertite!

Dove può andare il Paese più ricco di opere d'arte del mondo, che futuro può immaginare per il suoi giovani, per la qualità della vita, per riattivare quel «circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione», se parte da questa miserevole dotazione di capitale umano?

Mettendo insieme le due immagini ‐ quella del brand e quella dell'analfabetismo ‐ viene da pensare al grande illuminista tedesco Ephraim Lessing, il quale suggellò il suo Grand Tour con una favola in cui i moderni italiani che si vantano di discendere dagli antichi romani vengono paragonati a vespe che uscendo dalla carogna di un cavallo esclamano: «Da quale nobile animale abbiamo tratto origine!».
Quanto gli italiani sappiano diventare boriosi proprio in ragione della loro storia e al loro patrimonio lo ha poi ribadito un altro filosofo. «Il tratto principale del carattere nazionale degli Italiani - annotava Arthur Schopenhauer in un Taccuino del 1823 - è un'assoluta spudoratezza. Che consiste in questo: da un lato non c'è nulla di cui non ci si ritenga all'altezza, e quindi si è presuntuosi e arroganti; dall'altro non c'è nulla di cui ci si ritenga abbastanza esperti, e quindi si è codardi. Chi ha pudore, invece, è troppo timido per alcune cose, troppo orgoglioso per altre. L'Italiano non è né l'uno né l'altro, bensì, a seconda delle circostanze, o è pavido o è borioso».

Oggi dobbiamo avere l'umiltà di ricominciare da capo, di ripensare i saperi e le competenze, e acquisire piuttosto la consapevolezza di essere degli analfabeti seduti sopra un tesoro, sempre di più privi di quegli strumenti di base che ci permetterebbero non solo di capire, ma anche di far fruttare i formidabili talenti che ci circondano.

Smettiamola, con il nostro turismo d'accatto, di presentarci come degli straccioni che a un certo punto scoprono di avere il Colosseo (oggi usato come una specie di rotatoria per le automobili) e cercano di mungerlo il più possibile, senza aggiungerci nulla in termini di innovazione, intelligenza, conoscenza, capitale umano. Totò che vende la fontana di Trevi a un turista americano è un'altra immagine appropriata, e ancora attuale. Ci fa ancora ridere. Ridiamoci pure sopra. Ma allarmiamoci anche, perché Totò ci sta dicendo ancora la verità. Abbiamo capito che quell'opera ha un valore inestimabile, ma ne capiamo sempre meno il significato, mentre è proprio questo che gli altri Paesi civili ed emergenti comprendono e apprezzano, e spesso sfruttano economicamente, con maggiore lungimiranza, al nostro posto.

Ecco allora il vero senso di emergenza che il nostro Manifesto per la cultura vuole imprimere ai decisori pubblici attuali, e al Governo intero, che non possono sottrarsi a questa enorme responsabilità storica solo perché da trent'anni i loro predecessori lo hanno fatto. Il senso dell'urgenza sta in quei dati agghiaccianti, in quel misero 20% di italiani (8 milioni circa) che dispone di strumenti di lettura e scrittura minimi indispensabili. Siamo in gravissimo ritardo nel quadro internazionale e nell'ambito di una società globalizzata cosiddetta della «conoscenza». Se poi aggiungiamo i dati relativi ai ragazzi di 15-16 anni dei famosi test Pisa c'è da allarmarsi ancora di più.

Dunque prima ancora che dalla Cultura, partiamo dalle sue basi, dall'istruzione, e ripensiamola nei termini dell'unico possibile investimento per il nostro futuro dopo la crisi. Prendiamo il coraggio ‐ e i dati ‐ a due mani e diamoci da fare. Io sono certo, con la maggior parte di voi, che impegnandoci un po' possiamo tranquillamente dimostrare che Lessing e Schopenhauer avevano torto.

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