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Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2012 alle ore 16:19.

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© Fabrizio Annibali© Fabrizio Annibali

Il mare è un cannibale che ogni anno inghiotte migliaia di persone. Gli ultimi dati disponibili dell'Imo, l'Organizzazione marittima internazionale, parlano di 2.350 morti nel 2009, il doppio rispetto a inizio secolo. Il bollettino di guerra 2010 elenca 172 grandi navi colate a picco, e questa è una stima per difetto resa nota da FairPlay Maritime News che non tiene conto di piccole imbarcazioni e pescherecci.

Tutta colpa della rabbia di Poseidone o si tratta di tragedie annunciate? I più preoccupati sembrano essere i manager delle compagnie assicurative. Il mare raccoglie ogni anno 25 miliardi di dollari di premi nel ramo danni e sinistri navali. E se il trend di circa di 450 incidenti l'anno aumenta, le società rischiano di rimetterci un sacco di soldi. Gli assicuratori l'hanno ribadito un anno fa, nel corso della riunione dell'International Union of Marine Insurance che si è tenuta a Parigi. Ciò che è emerso è che la flotta mondiale è ormai datata, l'età media supera i 25 anni, e la crisi finanziaria accelera nuove economie di scala. Il che si traduce nell'acquisto di navi extralarge, colossi da 500-600 tonnellate, sia mercantili che passeggeri, volumi più alti a bordo per far risalire gli utili. Maersk, il più grande operatore del settore, nel 2011 ha ricevuto 20 ordini per la costruzione di 20 navi da 360 mila teu, come prendere venti torri Eiffel e mandarle a spasso per gli oceani.

Troppi rischi per gli assicuratori, i quali non vedono di buon occhio le navi-grattacielo soprattutto nel mondo del trasporto passeggeri. Secondo un report di Paul Hill, capo dei certificatori di Braemar Technical Service, i rischi di incidenti aumentano per tre ordini di ragione: navi sempre più grandi (e spesso cariche oltre il limite), porti che non crescono di pari passo con la stazza della flotta e rotte che si avventurano tra condizioni atmosferiche e in luoghi "estremi". Facendo due conti, Hill ha scoperto che sono le navi passeggeri a registrare il tasso di incidenti più alto: 9,9 per cento del totale contro l'8,9 per cento dei cargo, pur rappresentando solo il 6,3 per cento della flotta mondiale. Gli esperti di navigazione non sono d'accordo. E ognuno offre statistiche diverse, a seconda di tonnellaggio e tipo di nave, per confutare l'aumento degli incidenti. E poi c'è chi se la prende con i pirati, chi con la globalizzazione, chi minimizza perché, in fondo, il 90 per cento del traffico merci mondiale è via mare e quindi qualche incidente deve pur capitare.

E c'è anche chi punta il dito contro il cambiamento climatico che mette a repentaglio, oltre a quella dei passeggeri, la vita del milione di marinai impiegati negli oltre 50mila mercantili (le passeggeri sono circa 4mila) registrati al mondo. Quello che è certo è che il disastro della Concordia all'Isola del Giglio ha riaperto la questione sulla sicurezza a bordo delle navi da crociera e in seconda battuta su tutto il pianeta galleggiante della gente di mare: tanker, cargo, navi container, bastimenti Lng (gas liquefatto) e tutte le imbarcazioni che fanno girare l'economia mondiale. Il sindacato internazionale dei marinai del Nautilus non ci sta a buttare nella gogna gli Schettino di turno, come sembra fare lo stesso Imo sostenendo che l'80 per cento delle collisioni e degli affondamenti, disastri ambientali inclusi, sia imputabile all'errore umano. Il segretario generale del Nautilis, Marc Dickinson, esorta gli armatori a cambiare le regole del gioco e a rivedere design e scafi del gigantismo navale. Sul tema si è imposto tre anni fa l'Istituto marittimo di Francia con uno studio ad hoc.

Gli autori del report si chiedevano fino a quando l'Imo avrebbe lasciato fare i costruttori nella folle corsa alle navi extralarge e, soprattutto, fino a quando gli Stati avrebbero accettato di lasciar passare a fianco delle proprie coste navi da 9mila persone senza avere i mezzi per soccorrere tempestivamente i passeggeri in caso di avaria. Le domande sono rimaste senza risposte. Claudio Lugni lavora all'Insean-CNR (l'istituto fotografato in queste pagine) e si occupa di determinare le cause idrodinamiche che provocano l'insicurezza in mare. Secondo Lugni, in cima alla lista delle debolezze dell'imbarcazione c'è un fenomeno nuovo, quello dei cambiamenti climatici. «Onde anomale che si abbattono con brutale violenza. Fino a qualche anno fa questi moti ondosi riuscivano a danneggiare solo le piccole imbarcazioni, al di sotto dei 100 metri, oggi si sono fatti più frequenti e rabbiosi».

L'altro fattore di instabilità è imputabile alla green economy. Maersk, Hyunday, Samsung fanno a gara per avere i mercantili più grandi del mondo, ma anche più performanti, con il minor impatto ambientale. «Ecco, quando si punta a snellire gli scafi per andare più veloci e consumare di meno ci si sottopone a rischi più frequenti». Roberto Cazzulo è direttore regolamenti del Rina, uno dei 15 enti al mondo incaricati di classificare e verificare la sicurezza sulle navi. «È l'età delle navi il primo rischio, non la grandezza – dice –. Le navi che affondano sono quelle che hanno superano 25-30 anni di vita. Si tratta di mercantili che hanno lavorato a lungo e necessitano di maggiore manutenzione che a volte in certi Paesi viene a mancare». E conclude: «La percentuale di vite perse in mare è molto bassa: 0,32 su un milione di passeggeri, mentre le navi perse sono 1,39 ogni mille».

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