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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2012 alle ore 15:25.

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Credo sia chiaro a tutti che l'organizzazione della cultura italiana ha bisogno di una bonifica radicale, prima ancora che di nuovi investimenti (peraltro sacrosanti). Voglio qui riferirmi innanzi tutto alla cultura teatrale e a quella musicale che mi stanno particolarmente a cuore, e i cui percorsi si intrecciano molto più di quanto sembri.

Delle acclarate negligenze antiche del nostro Paese verso il teatro sono responsabili non solo le istituzioni, col loro carico di clientelismi e menefreghismi, ma anche una consistente parte degli intellettuali italiani che spesso ostentano disinteresse per quel che accade sulle nostre scene, e a volte vantano con orgoglio il loro analfabetismo teatrale. È molto diffuso un pensiero cinematografaro per il quale Molière è un optional, e Kiarostami è imperdibile.

Tale provincialismo è certo in parte giustificato dalla piattezza burocratica delle nostre stagioni teatrali, ma non bisogna confondere il mezzo con l'uso che se ne fa: sarebbe come confondere l'informazione con Minzolini. Non può esistere una civile cultura nazionale senza una civile cultura teatrale. I Paesi europei ce lo insegnano e, in qualche modo, perfino gli Stati uniti. E sì che la nostra penisola ha un forte tessuto connettivo di pubblico molto ben disposto all'attenzione teatrale. Lo sa chiunque abbia fatto tournée nella popolosa provincia italiana, da Tolmezzo a Trapani.

Quanto al teatro musicale, ci vuole molta ottusità per non capire come l'Opera italiana sia un momento imprescindibile per rappresentare il nostro Paese nel pianeta. Certo va bonificata l'organizzazione dei teatri pubblici, di prosa e di lirica, i quali da un lato sono preziosi custodi e diffusori di grandi patrimoni artistici, dall'altro sono spesso dispendiose strutture con un ridicolo rapporto costi-efficienza: la metafora più inflazionata per definirli è carrozzoni, che sarà inflazionata ma rende l'idea. Molti lavoratori sono impiegati per un risultato produttivo quantitativamente basso. Tante spese, poche repliche.

E poi, a fronte di un alto impiego di denaro pubblico per le produzioni, i biglietti dei teatri d'opera sono talmente costosi da impedire l'accesso ai ceti non agiati, compresi i giovani studenti di musica. Leggo che la Scala di Milano ha preso la buona abitudine di far precedere la prima di Sant'Ambrogio da un'anteprima a prezzi bassi riservata ai giovani, sotto i 25 anni mi pare. Leggo anche che questi biglietti vanno esauriti in mezz'ora e che queste rappresentazioni ogni volta riscuotono un successo trionfale, un esito ben più entusiasmante dello stantio lusso della prima. Beh, un applauso alla Scala per questa iniziativa meritoria, la quale però dovrebbe essere non l'eccezione bensì la regola. Accogliamo contenti questa goccia nel mare, ma, ci chiediamo, quando succederà che i nostri teatri serviranno proprio per diffondere l'opera? per favorirne l'accesso di pubblico nuovo? per farla conoscere e farla amare?

Il discorso riguarda naturalmente solo l'aspetto museale dei teatri cosiddetti lirici. La produzione di nuove opere teatrali musicali è tutt'altra questione. Non mi vengono in mente titoli commissionati e prodotti da enti lirici che siano poi entrati in repertorio. Spesso la sbandierata prima esecuzione è anche l'ultima. Ma quello del nuovo repertorio, delle nuove forme di rapporto fra scena e partitura, del ruolo dell'opera contemporanea è un discorso molto complesso, difficile da affrontare qui e ora. È un tema che ho provato a smuovere già in passato; anche dalle colonne di un giornale romano, quando ho proposto di destinare il Valle di Roma proprio al repertorio del teatro musicale – passato, presente e futuro –: non mi aspettavo nessuna risposta dalle istituzioni, e nessuna ne ho avuta. Forse è un discorso che si potrà affrontare solo quando certi macigni strutturali saranno rimossi, quando una ritrovata agilità culturale ci permetterà di ragionare in termini rispettosamente artistici e produttivi, al di fuori di polemiche e interessi personali.

Pochi anni fa ho partecipato a un dibattito su Radio Tre; in studio c'era, fra gli altri, l'eccellente professor Salvatore Settis. Erano i giorni delle manifestazioni contro i tagli ministeriali, sciaguratamente annunciati e fortunatamente poi sospesi grazie all'intervento, credo, di Gianni Letta. Durante quella radiotrasmissione rimasi molto colpito dalla distinzione che continuamente tutti facevano fra cultura e spettacolo. Purtroppo ero in collegamento telefonico ed era frustrante per me non poter intervenire a chiarire l'equivoco. La cultura meriterebbe sovvenzioni e lo spettacolo no? Cosa vorrebbe dire? Libri sì, teatro no? Moccia sì, Shakespeare no? In che senso non sarebbe cultura una rappresentazione di Zio Vania o di West Side Story?

Rileggo alcuni articoli di Fedele D'Amico scritti negli anni Sessanta: il grande pensatore già allora ci metteva profeticamente in guardia dall'abuso del termine cultura, che stava guadagnando terreno sul termine arte. L'abuso del concetto di cultura genera il culturalismo, anticamera del burocratismo. La bonifica civile nel nostro Paese – che ci auguriamo imminente e alla quale il Manifesto che sottoscriviamo può dare il suo contributo – non cada in questi equivoci, e di conseguenza non sottovaluti l'importanza del teatro: di prosa, di poesia, musicale, tragico, comico, lirico, di ricerca, d'intrattenimento, di repertorio, d'evasione, da camera, da palasport, da cantina...

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