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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2012 alle ore 15:25.

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Non c'è bisogno di scomodare Luigi Einaudi per ricordare come l'attività di Governo richieda di "conoscere per deliberare". L'arte del Governo ha bisogno dell'aritmetica politica per misurare i dati essenziali della vita collettiva. Il Governo della cultura ha bisogno di misurare lo sviluppo culturale. Questo potrebbe sembrare ovvio nell'epoca della digitalizzazione o del numérique, tuttavia le conoscenze quantitative dei fenomeni economici e sociali legati alla cultura e alla creatività sono spesso carenti o non bene organizzate.

Se, come ricorda il "Manifesto per la Cultura", numerosi studi a livello internazionale hanno dimostrato come il sistema della produzione culturale e delle attività creative sia tra i più importanti settori per dimensione economica, è anche vero che questi studi hanno adottato definizioni e metodologie molto differenti per delimitare il loro campo di indagine e misurare le variabili di riferimento. Lo stesso vale per l'Italia. Lo studio comparativo del 2006 condotto da Kea European Affairs per conto della Commissione europea, offre ad esempio una stima conservativa del contributo dell'economia culturale e creativa in Italia pari al 2,3% al Pil nel 2003.

Due anni più tardi, la Commissione ministeriale, che ha pubblicato il Libro bianco sulla creatività, colloca il peso delle industrie culturali e creative intorno al 9,3% del Pil nazionale nel 2004 e individua gli addetti al settore in più di 2,5 milioni di unità. Questa stima si basa su una definizione ampia del settore che include anche comparti del Made in Italy (Moda, Design ed Enogastronomia) come espressione della cultura materiale del Paese e considera non solo le fasi di concezione creativa e produzione culturale, ma l'intera filiera di produzione del valore (incluse attività di distribuzione e attività connesse). Più recente e utilizzando un approccio metodologico in parte differente, uno studio a cura della Fondazione Symbola e Unioncamere evidenzia come le industrie culturali e creative insieme ai settori del patrimonio e delle attività artistiche contribuiscano nel 2010 a quasi il 5% della ricchezza prodotta e diano lavoro a un milione e mezzo di persone (il 5,7% dell'occupazione nazionale).

L'eterogeneità di approcci e definizioni è in parte dovuto al tentativo di risolvere in modi innovativi la difficoltà di misurare un fenomeno che per la sua trasversalità intersettoriale è difficile da far emergere nei dati statistici e per la sua contemporaneità non è ancora oggetto di valutazione contabile e quantitativa. Infatti, molte delle attività culturali e maggiormente creative non vengono svolte in imprese, ma da professionisti freelance o lavoratori non stabilmente occupati, che operano molte volte su base progettuale. Inoltre, l'innovazione tecnologica negli ultimi anni, e in particolare la digitalizzazione, sta portando a una convergenza e sovrapposizione di molti settori dedicati alla produzione di contenuti culturali come il cinema, l'editoria e la musica, rendendo difficile un inquadramento delle innovative forme di business in questi ambiti secondo la classificazione convenzionale dell'industria e dei servizi adottata dalle statistiche ufficiali. Infine, alcuni servizi come il design o la comunicazione e pubblicità sono estremamente trasversali e vengono svolti sia da società di consulenza dedicate ma anche all'interno di imprese appartenenti a settori economici totalmente estranei alla sfera culturale e creativa.

Per questo motivo l'approccio settoriale basato sulle classificazioni tradizionali ha delle profonde limitazioni che devono essere prese in considerazione quando si parla di cultura e creatività. In questo senso, sarebbero necessarie delle rilevazioni statistiche che utilizzino classificazioni con un dettaglio maggiore, ma questo richiederebbe risorse umane ed economiche. Seguendo il suggerimento dell'Unesco per la definizione delle statistiche culturali, sarebbe utile distinguere tra "campi" e "settori" della cultura, essendo la prima nozione più ampia di quella di settore e ricomprendendo anche gli aspetti informali, illegali o sociali delle attività culturali, quali il mercato nero o la produzione privata e familiare. Allo stesso modo, la cosiddetta "culturalizzazione" della vita economica e sociale sta portando a un'espansione della sfera culturale e creativa, rendendo più importante la misurazione del capitale umano e delle professioni piuttosto che l'analisi per settori. In Gran Bretagna è emerso che incrociando i dati sulle forze lavoro con quelli delle attività economiche circa il 55% dei lavoratori culturali e creativi è impiegato in settori non culturali e creativi. Simili risultati sono stati ottenuti anche da una recente ricerca dell'Associazione per l'economia della cultura sull'occupazione culturale in Italia.

Queste esperienze dimostrano come lo sviluppo di indicatori che misurino il valore della produzione culturale e dell'economia creativa sia un processo intellettuale difficile e costoso perché cerca di fotografare sfere dell'attività umana complesse e spesso intangibili. Tuttavia è un passo necessario se si vuole rimettere al centro la cultura nel nostro Paese e sviluppare strategie di lungo periodo per sostenerla. Misurare è importante, ma è ancora più importante dare continuità alle misurazioni per comprendere l'evoluzione dei fenomeni e monitorare l'efficacia delle politiche. Anche in questo senso, l'esperienza britannica del Department of Culture, Media and Sport può essere esemplare del metodo di lavoro adottato. Una volta riconosciuto mediante le prime ricerche l'importanza delle industrie culturali e creative come fattore strategico per lo sviluppo del Paese, è stato costituito un gruppo permanente di lavoro per adattare i metodi di rilevazione statistici e i processi di raccolta di dati economici alle esigenze di monitorare questo macrosettore.

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