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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2012 alle ore 08:13.

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«Che tu sia maledetta,cagna». Lo grida al giudice Tatjana Vasjucenko, che ha appena letto la sentenza: la battaglia di Olga Romanova per il momento finisce qui, nell'aula minuscola del tribunale Presnenskij, centro di Mosca: «Il giudice Vasjucenko – scrive Olga senza mai smettere di commentare su Facebook – ha ripetuto parola per parola la condanna che mi è stata fatta vedere un mese fa. Non si vergognano di nulla».
Un giudizio prefabbricato, dunque, prima ancora della riapertura del processo contro Aleksej Kozlov, imprenditore, 38 anni, marito di Olga. Pochi giorni prima, lei aveva rivelato di aver avuto conferma dell'imminente decisione del tribunale, e vi aveva letto una sentenza ancora più terribile: «Ho paura che laggiù me lo uccideranno». In Russia, non fa che ripetere, decine di migliaia di persone vengono condannate per crimini non commessi, per ragioni politiche o per interessi economici. A volte la condanna non finisce qui. Soltanto a Mosca, soltanto tra i prigionieri in attesa di giudizio, ogni anno muoiono 50 persone.
La vita di Olga e Aleksej è stata ribaltata cinque anni fa. Lei era giornalista economica, lui controllava un'impresa per la lavorazione della pelle, Iskozh, insieme a Vladimir Sluzker, allora uomo vicino al potere, con un seggio da senatore. Quando Olga scrive un articolo sgradito a qualcuno della cerchia di Vladimir Putin, Sluzker chiede a Kozlov di denunciare la moglie, o di lasciare la compagnia. Il rifiuto di Aleksej fa scattare un meccanismo che ha una frequenza diabolica in Russia: con una falsa accusa per un qualche reato economico, d'intesa con le autorità giudiziarie, un imprenditore che si è rifiutato di farsi da parte o di pagare tangenti viene sbattuto in prigione, mentre la sua compagnia finisce in mano al rivale. Kozlov è accusato di essersi impadronito illegalmente di azioni della società ai danni di Sluzker – che ora vive in Israele – e nel 2009 viene condannato a otto anni di colonia penale.
Sarà Olga a salvarlo. Almeno così sembra, quando dopo una riduzione della pena a sette anni, nel settembre scorso la Corte Suprema russa annulla la sentenza di condanna per vizi procedurali, e ordina la riapertura del processo. Non succede di frequente da queste parti, ma contro il sistema Olga ha seguito una strada che ora vuole indicare ad altri: andare all'attacco e portare allo scoperto quel che è avvenuto, non rassegnarsi all'ingiustizia, denunciare ad alta voce. Il risveglio della società civile è la radice del movimento di protesta esploso in dicembre in Russia, pochi mesi dopo la liberazione di Aleksej. Il pensiero del nuovo processo non ferma Olga Romanova, lei è tra gli organizzatori più in vista alle manifestazioni di Mosca: «Putin è un loch, un imbecille», lo ha deriso il giorno dopo le elezioni del 4 marzo, in piazza Pushkin.
Ormai la sua giornata si divide tra le dimostrazioni e le aule di tribunale: Olga ha creato un gruppo, «La Russia dietro le sbarre», per aiutare i casi simili al suo, assiste le mogli di prigionieri accusati ingiustamente. Si ritrovano ogni settimana in un piccolo caffè vicino alla piazza Triumfalnaja, «Rosso e Bianco». Olga ci dà appuntamento qui per raccontare la sua storia. Ma il giorno stabilito, il 7 marzo, non viene, scompare anche da Facebook. Spiegherà poi di aver saputo allora dell'imminente condanna del marito.
Arrivano in tribunale tenendosi per mano, lui ha una borsa da viaggio con vestiti e libri, continua a sorriderle ma è chiaro che non spera in un'assoluzione. Se lo dichiarassero innocente, attaccherebbero i magistrati che lo avevano giudicato in precedenza. Quando Tatjana Vasjucenko accoglie la richiesta dell'accusa, decretando per Aleksej Kozlov cinque anni in campo di lavoro per frode e riciclaggio, le signore di «Russia dietro le sbarre» fuori dall'aula gridano «Vergogna!», e internet subito centuplica la loro convinzione: questa è la vendetta per la partecipazione di Olga alle manifestazioni contro Vladimir Putin. Confermando il timore che quel piccolo inverno di tolleranza concesso all'opposizione tra un'elezione e l'altra sia ormai già finito: dopo la vittoria che riporterà Putin al Cremlino, anche gli arresti dei dimostranti sono ripresi.
«Brutta situazione, anche a me era successo proprio così: dopo il secondo processo mi hanno arrestato direttamente in aula, sotto gli occhi di mia moglie. E anch'io mi sono tolto l'orologio, e gliel'ho dato...». Giornalista investigativo specializzato sul nucleare, Grigorij Pasko è un'altra voce che si batte per le vittime del sistema giudiziario russo. In carcere ha passato sei anni, accusato di alto tradimento per le sue inchieste sulle scorie nucleari scaricate in mare nell'Estremo Oriente russo. Anche per lui, gli anni vissuti in campo di lavoro hanno gettato il seme di un impegno per l'ambiente, la libertà di stampa, i diritti dell'uomo: «Dillo, sono costretto a scrivere questi articoli – si raccomanda Pasko – perché nel mio Paese, come prima, non esiste giustizia».
L'ultima battaglia sta portando Pasko in Italia. Vuol far conoscere un altro caso che sembra avere le stesse caratteristiche della vicenda di Kozlov. Ivan Kostin ha la sua stessa età, è un piccolo imprenditore di Stavropol: qualche anno fa aveva ereditato un gran numero di azioni dell'azienda di liquori fondata dal padre, e si era rifiutato di venderle a basso prezzo al socio. Un uomo influente, quest'ultimo, ecco ancora il meccanismo kafkiano che si rimette in moto: Ivan viene denunciato per furto, anche in questo caso – come in quello dei barili di petrolio di Mikhail Khodorkovskij – lo scenario è surreale, lo accusano di aver sottratto all'azienda senza che nessuno si accorgesse migliaia di bottiglie di cognac – al ritmo di 250 litri al giorno – sostituendole con liquore non invecchiato. Contro di lui, che nel frattempo aveva venduto ad altri le azioni ed era andato a vivere con la famiglia in Israele, viene spiccato un mandato di cattura internazionale, a sua insaputa. Grigorij Pasko racconta tutto questo nei suoi articoli, il finale della storia è di scena a Milano dove Kostin arriva nel novembre scorso per una fiera enologica, e viene arrestato. Trascorre più di un mese a San Vittore, il resto agli arresti domiciliari da amici, vicino a Roma. Il 3 aprile prossimo a Milano è fissata l'udienza sulla richiesta di estradizione delle autorità russe: tornerà e sarà condannato, insiste Pasko. Come Aleksej Kozlov, un altro anello in una catena senza fine.