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Questo articolo è stato pubblicato il 26 marzo 2012 alle ore 18:58.

Palazzo Stoclet, realizzato da Josef Hoffmann a BruxellesPalazzo Stoclet, realizzato da Josef Hoffmann a Bruxelles

Doveva essere una casa elegante ma contenuta, quella che Adolphe Stoclet stava per farsi costruire da Josef Hoffmann nei pressi di Vienna. L'improvvisa scomparsa del padre cambiò però i suoi piani, costringendolo a far ritorno in Belgio per gestire un impero finanziario. Inebriati dalla Primavera Sacra, Adolphe e consorte non vollero rinunciare all'architetto viennese: anzi diedero a lui e alla sua cerchia completa libertà e un budget illimitato per realizzare a Bruxelles non più una semplice dimora ma un museo-mausoleo. Il Palais Stoclet, sorto tra il 1905 e il 1911, fu infatti pensato per contenere una collezione che spazia dai Primitivi italiani all'arte orientale, dall'Egitto al Perù, dal Medioevo europeo all'Africa Nera.

Sormontate da una cupola di alloro, le facciate del Palazzo sembrano tanti fogli di carta tenuti insieme da strisce in bronzo intarsiato che sottolineano gli spigoli. È il trionfo della linea: non più quella nervosa e vegetale delle case di Victor Horta – costruite pochi anni prima a pochi chilometri di distanza – ma la linea retta, geometrica, capace di trasformare la solidità della pietra in una sottile partitura bidimensionale. Anche per questo l'edificio è divenuto un punto fermo dell'architettura del Novecento: non solo come massima espressione delle Wiener Werkstätte, ma soprattutto per quel candore "protorazionalista", a tratti mediterraneo, che secondo alcuni anticipa l'estetica della riduzione di Le Corbusier e compagni.

Pur conservando il rigore geometrico, all'interno si cambia registro. Nella hall di ingresso si alternano i pezzi della collezione Stoclet con un catalogo di marmi, alabastro, onice del Marocco, tende di seta cinese bianca, poltrone in pelle scamosciata e lampade elettriche di cristallo; la sala da musica ha sedie rosso porpora in legno dorato, sculture di George Minne e un pianoforte a coda Bösendorfer disegnato dallo stesso Hoffmann; ovunque, tappeti e pavimenti con i tipici motivi a scacchiera. Ogni stanza veniva preparata a Vienna, e poi spedita pezzo per pezzo a Bruxelles.

Il meglio venne riservato per la sala da pranzo: qui fin dall'inizio Adolphe voleva Klimt, e riuscì a fargli realizzare un favoloso fregio composto da tre pannelli a mosaico. La gestazione, ricostruita nel catalogo della mostra, fu per l'artista lunga e sofferta: «Mi è difficile dire no – scriveva Klimt nel 1907 – ma lo devo fare! Meglio "fare fiasco" all'inizio che più tardi, quando avrebbe brutte conseguenze. Stoclet non mi funziona né nella testa né nelle mani, per non parlare di tutto il resto: sono o troppo stanco o troppo nervoso o troppo "scemo", qualcosa sarò».

Il risultato di tanti turbamenti lo descriverà bene Hoffmann: «Su un variopinto prato fiorito cresce una forma arborea ricca di mille rami fortemente stilizzati con uccelli fra i tralci dorati arricciati all'insù, intrecciati a potenti figure. Quest'ultime, soprattutto per l'efficacia e la magnificenza dei colori, dettero a Klimt l'occasione di dimostrare la sua ispirazione decorativa secondo un'arte caratteristica, strana, nuova».

Patrimonio dell'Unesco, il regno degli Stoclet parla moltissime lingue: «È un inglese germanizzato, un arabo modernizzato, un bizantino imbizantinito», commentava un visitatore nel 1912. Espressione di una modernità "esotica" e ancora preindustriale – come le opere d'arte contenute al suo interno – non è chiaro se il Palazzo sia la fine o l'inizio di qualcosa. Di certo il simbolo di un'architettura fatta attraverso il dialogo: tra Klimt e Hoffmann, tra Vienna e il Belgio, tra San Miniato al Monte e Costantinopoli.

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