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Questo articolo è stato pubblicato il 31 marzo 2012 alle ore 19:30.

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Quasi cinque ore di spettacolo. Senza intervalli. Con gli spettatori liberi di alzarsi, muoversi, e rientrare. Senza, per questo, perdere nulla del "racconto" visivo – teatrale, musicale, danzato - dell'opera rappresentata. Un'esperienza da vivere.

Stiamo parlando di Einstein on the beach, di Bob Wilson e Philip Glass, evento che ha richiamato un pubblico di appassionati, e non solo, per l'unica tappa italiana di questo spettacolo che, dal suo debutto nel '76, ripreso poi nel ‘90, costituisce una pietra miliare del teatro del Novecento. Un kolossal, problematico da rimontare, ma non impossibile.

E questa terza ripresa, in tournèe mondiale, ne riconferma il valore di capolavoro. Manifesto di un rigoroso teatro astratto, perseguito da sempre da Wilson contro la riproduzione naturalistica del reale, Einstein on the beach è costruito su un tessuto di ritmi visivi dove la musica di Glass, con la ripetitività ossessiva di un fiume di poche note, è fattore portante di una composizione dove i diversi linguaggi si compattano mirabilmente, si allacciano e si smarriscono senza smettere di incantare.

A ricordarci Einstein – il titolo dell'opera nasce dalla suggestione di una vecchia foto dello scienziato sulla spiaggia – ci sono solo alcuni oggetti e qualche indizio: oltre all'immedesimarsi in lui, nei costumi di tutti gli attori, ricorre una conchiglia, fluttuano orologi che girano all'indietro, bussole sospese, un giroscopio (giocattolo amato da bambino), razzi, qualche fotogramma allusivo alla bomba atomica, e la sua stessa figura nel violinista in proscenio con capelli e baffi bianchi a sbeffeggiarci con la celebre linguaccia.

Ad evocare la sua rivoluzione di scienziato sono le molteplici associazioni d'immagini, geniali come il genio in questione, che Wilson architetta nello spazio. La composizione – quattro atti scanditi da siparietti che fungono da raccordi (kneeplays), giostrati su due presenze femminili – fa leva, infatti, su un principio antinarrativo e neanche logico, dove non c'è trama e i testi sono senza senso. Ubbidisce ad associazioni figurative secondo una tecnica in qualche modo matematica distribuita su tre immagini: un treno; un tribunale (trasformato anche in prigione che ospita lo stesso Einstein mutarsi, in seguito, in Patricia Hearst, la figlia del re della stampa divenuta femminista armata e rapinatrice); un campo incolto che sarà visitato da un'astronave galleggiante nello spazio, per poi rivelare il suo interno di "Macchina del tempo".

Dentro queste ambientazioni, con alternanze e combinazioni di interni ed esterni, di un folgorante disegno di illuminotecnica, e con le coreografie ariose e ripetitive di Lucinda Childs, si susseguono sequenze di grande forza visionaria. Come il rimando alla pittura di Edward Hopper in quell'edificio di mattoni rossi, con una donna in alto dietro la finestra, mentre in basso una folla sempre più numerosa entrando si immobilizzerà in diverse pose plastiche. O come l'enorme letto surreale che troneggia al centro dell'aula processuale: illuminato da un solo lato, si essenzializza in una striscia di luce che viene assunta in alto, verticalmente e lentamente, con un potere quasi mistico che ipnotizza in virtù, anche, del canto che l'accompagna.

Nel gioco di rapporti tra l'attore e lo spazio scenico si aggiungono i cantanti i quali, intonanti la loro litania seriale di tre note o di tre numeri, entrano ed escono dalla buca determinando i temi dell'equilibrio e della gravità nello spessore dei gesti e dei movimenti in ralenti. Fino a liberatorio aprirsi dello spazio e all'esplosione della luminosità. L'astronave, finalmente approdata, spalanca il suo interno ai nostri occhi. Ecco sul fondo quindici attori (ma sono orchestrali e cantanti) di spalle, ciascuno dentro uno scomparto quadrato dell'alta intelaiatura dei tubi innocenti, a simulare con gesti l'accensione di una serie di lampadine descrivendo le linee oblique o circolari che hanno tracciato i movimenti dello spettacolo. Che si chiuderà col racconto di una storia d'amore narrata da un anziano autista negro affacciato al finestrino di un bus con di lato un uomo e una donna seduti su una panchina. Forse dei sopravvissuti al disastro nucleare, forse novelli Adamo ed Eva di un nuovo mondo. Ciascuno è libero di aggirarsi con le sue interpretazioni più personali. Tutti, comunque, usciremo frastornati dalla meraviglia di un'esperienza totale dei sensi.

"Einstein on the beach", di Robert Wilson e Philip Glass, con The Lucinda Childs Dance Company, musiche eseguite da The Philip Glass Company. In esclusiva al Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia. In tournèe a Londra, Toronto, Brooklyn, Berkeley, Mexico City, Amsterdam, Hong Kong.

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