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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2012 alle ore 08:18.

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Misteri del teatro italiano: è capitato di vedere al Teatro India di Roma nelle scorse settimane due spettacoli tra i più importanti di quest'ultima stagione, come l'Avaro di Molière per la regia di Arturo Cirillo e l'Ubu Roi che Roberto Latini trae dall'opera di Jarry, e di scoprire che, non avendo tournée, il loro esiguo giro di repliche finiva lì. Misteri, in fondo, piuttosto chiari, visto che i motivi risiedono ancora una volta nella malandata gestione dei grandi enti di produzione pubblica della scena nostrana. E dire che in entrambi i casi si è registrato il tutto esaurito ovunque, con ovazioni e apprezzamenti della critica. Certo, questo non è, a quanto pare, un dato significativo per chi dovrebbe avere il compito di far girare queste creazioni artistiche, e, guarda caso, si tratta di teatri stabili, quelli di Napoli e delle Marche per Cirillo, quello di Prato per Latini. Si sa, dunque, che per queste imponenti strutture la logica è quella degli scambi con altre istituzioni di pari rilevanza, e nel baratto entrano soprattutto le regie dei direttori artistici. Per il resto, dare vita ad altre creazioni serve soltanto a far vedere a chi ripartisce il Fondo Unico per lo spettacolo che si sono prodotte cose belle e intelligenti, ma a che serve farle circolare? Tanto i costi sono coperti dal denaro pubblico.
Ecco dunque andare in soffitta il meglio di questa annata, a partire da quella sottilissima operazione che Cirillo mette in campo con un testo oramai ostico di Molière, riservandosi la parte del vecchio tirchio e modulandola su una durezza tutta interiore, su una radicale anaffettività, che a volte deflagra nelle impennate improvvise e disarticolate del suo camminare. Intorno a lui si dispone un delicato teatrino meccanico di figure che oggi ci sembrano umanamente distanti, ma che funzionano perfettamente nel condurre la nevrosi del protagonista fino alle estreme conseguenze e nel rivelarci la chiave farsesca, tutta italiana, del testo di Molière. Con attori formidabili in continuo andirivieni tra le grigie cornici concentriche di Dario Gessati e nel frusciare degli splendidi abiti di Gianluca Falaschi, tra citazione e rilettura.
Altrettanto radicale e sorprendente quell'Ubu che Latini compone con infinita ampiezza di immaginazione scenica, in un bianco allucinato, dove le vicende dell'ambizioso personaggio che diviene sovrano e di sua moglie slittano su inattesi accostamenti shakespeariani, magari suggeriti da un Pinocchio alla Carmelo Bene, facendo scattare continui corto circuiti intellettuali. Si amplia così quella catena di rovesciamenti di senso che il re e la moglie provocano, inconsapevoli non soltanto della loro follia autodistruttiva ma di aver messo in moto il definitivo scompaginamento del teatro contemporaneo. Anche in questo caso attori formidabili in un gioco serrato e acutissimo. Incuriositi? Nulla da fare. Questi due spettacoli fanno già parte del passato della nostra scena.
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