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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2012 alle ore 17:38.

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Il primo modo in cui lo fanno: scegliendo di investire sulla Rete anziché di demonizzarla. «Famolo strano»? Macché, se le cifre dicono che nell'Italia di oggi – fra gli adulti come fra i ragazzi – internet non è certo l'eccezione, è la regola. E allora perché mai la scuola dovrebbe rimanerne fuori, presidio incontaminato, ultimo ridotto da difendere a spada tratta contro l'assalto della barbarie tecnologica? Oggi i docenti più motivati lavorano con gli studenti attraverso prolungamenti virtuali dell'aula scolastica come sono i GoogleGroups. Sperimentano modalità non intrusive di didattica su Facebook. Trasformano la confessione-simbolo dello scolaro di terzo millennio – «L'ho trovato su internet» – da limite a risorsa, da vergognoso segreto a prova di talento.

Naturalmente, per fare questo gli insegnanti dell'autoriforma devono anzitutto trasmettere ai ragazzi qualcosa come un'epistemologia della Rete: il che corrisponde esattamente al buco più clamoroso dell'offerta didattica tradizionale. Nella lezione di italiano, qualunque professore di discreto livello insegna ai ragazzi un'elementare critica del testo. Nella lezione di fisica, qualunque professore insegna i requisiti minimi di un esperimento scientifico. Ma soltanto pochi professori italiani – indipendentemente dalla loro materia – insegnano ai ragazzi i criteri fondamentali di una navigazione in Rete. Come cercare le cose, e dove trovarle. Come distinguere fra siti autorevoli, siti attendibili, siti eterogenei, siti pericolosi. Come appropriarsi dei tesori di internet senza rubarli.

È ovvio che un'epistemologia della Rete potrà venire tanto più praticata quale dimensione comune della didattica, quanto più le infrastrutture della scuola italiana saranno tali da permettere una diffusione massiccia della lezione digitale. Ma già oggi il deficit di risorse materiali non sta frenando gli insegnanti dell'autoriforma, che sanno bene come le famose discipline curricolari siano altrettanti campi aperti per la sperimentazione di modalità nuove non soltanto di istruzione, ma di educazione dei ragazzi. Perché è poi questo il punto cruciale. Una delle ragioni per cui i nativi digitali si sentono sempre più alieni entro il mondo della scuola tradizionale risiede nella loro percezione – più o meno chiara o confusa – che questa scuola (secondo la formula di un insegnante d'avanguardia, Giuseppe Dejana, nel titolo del suo ultimo libro) Istruisce ma non educa: «Fornisce ai giovani nozioni e conoscenze, ma non sviluppa in loro la capacità di orientarsi in modo razionale e pluralistico sui valori morali e civili della vita individuale e di quella pubblica».

Manca qui lo spazio per mostrare come i contenuti dei sacrosanti programmi ministeriali si prestino fin da ora – se interpretati con determinazione – alle più varie scorribande sul terreno di una didattica capace di educare oltreché di istruire. Il programma di storia come luogo ideale per trattare di cittadinanza attiva e responsabile. Il programma di scienze come luogo deputato a un'acculturazione bioetica. Il programma di geografia come occasione privilegiata per studiare la differenza religiosa.

Contentiamoci di menzionare il programma di italiano, e Dante Alighieri. Anziché impegnarsi a espurgare la Divina Commedia neanche fossimo censori della Controriforma, perché non partire proprio dalle frecciate antisemite di Dante per attribuire una profondità di campo – domani, discutendone in classe – alla strage di bambini nella scuola ebraica di Tolosa?

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